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 2012  luglio 06 Venerdì calendario

DODD, L’AMBASCIATORE AMERICANO CHE CRITICÒ HITLER IN PUBBLICO


Ho letto Il giardino delle bestie di Erik Larson (Neri Pozza editore) la storia dell’ambasciatore americano Dodd e della sua famiglia negli anni della loro permanenza nella Berlino nazista del 1933-34. Mi interesserebbe sentire un suo giudizio sull’operato di questo diplomatico, catapultato in una realtà a dir poco turbolenta come quella della Germania dell’ascesa di Hitler al potere.
Alberto Mazzeo
sordello2001@yahoo.it
Caro Mazzeo,
C ome la maggior parte degli ambasciatori degli Stati Uniti, William Dodd non apparteneva alla carriera del Dipartimento di Stato. Ma non era, a differenza di molti, l’ambizioso finanziatore della campagna presidenziale che passa all’incasso, dopo la vittoria del suo candidato, e ottiene, in segno di gratitudine, un lusinghiero posto diplomatico. Era un intellettuale del partito democratico, autore di studi su Woodrow Wilson e sostenitore di Franklin D. Roosevelt, eletto alla Casa Bianca nel novembre 1932. Dodd era indubbiamente attratto dalla vita pubblica, ma insegnava storia americana all’Università di Chicago e meditava da tempo un’opera monumentale sulla civiltà degli Stati americani del Sud. Il suo rapporto con il mondo tedesco era strettamente accademico e risaliva a una tesi di dottorato discussa all’Università di Lipsia nel 1900. Fu quella la sola ragione per cui Roosevelt, dopo avere inutilmente offerto l’incarico ad altre persone, decise d’inviarlo a Berlino come ambasciatore degli Stati Uniti presso l’uomo che si era da poco impadronito del potere.
Di quest’uomo, Adolf Hitler, gli americani non potevano ignorare né l’ideologia né i concreti programmi. Ma la questione che maggiormente li preoccupava, agli inizi del 1933, era quella dei debiti che la Germania aveva contratto con le banche americane negli anni precedenti. Il Führer li avrebbe onorati? Quando Dodd, prima della partenza, incontrò i banchieri a Wall Street e partecipò ad alcune riunioni presso il Dipartimento di Stato, quello fu il principale tema all’ordine del giorno. Vi fu anche qualche cenno alla questione ebraica, ma passò in seconda linea per due ragioni, di cui una esplicita e l’altra meno pubblicamente confessata. Quest’ultima era la convinzione, diffusa in molti ambienti della società americana, che gli ebrei avessero in Germania, come negli Stati Uniti, una influenza sproporzionata e che andassero, di conseguenza «rimessi in riga». La prima era fondata sulla speranza che Hitler, come altri uomini politici radicali, avrebbe dato prova, dopo la conquista del potere, di maggiore realismo e maggiore prudenza.
Dodd fu tra i primi ad accorgersi che il Dipartimento dello Stato stava commettendo un errore e cominciò a criticare pubblicamente il regime di Hitler anche per la sua politica antisemita: un atteggiamento che finì per infastidire sia i nazisti, sia il governo americano. Fu quella la ragione per cui nel 1937 presentò le sue dimissioni e tornò in patria. Pochi mesi dopo il Dipartimento di Stato e la Casa Bianca capirono che aveva avuto ragione.