Massimo Mucchetti, Corriere della Sera 6/7/2012, 6 luglio 2012
L’ITALIA PROPONGA NUOVE REGOLE DOPO LO SCANDALO DEI TASSI MANIPOLATI
Il Financial Times e il Wall Street Journal balbettano di fronte alla scoperta della manipolazione del Libor, complici altissimi esponenti della Banca d’Inghilterra, distratti i segugi della Financial Services Authority. Libor è l’acronimo di London interbank offered rate, il tasso d’interesse medio richiesto dalle 16 principali banche della City per prestarsi il denaro a breve scadenza tra loro. Ottime le cronache, per carità. È sui rimedi che le Bibbie del capitalismo finanziario faticano. Ma noi italiani, che abbiamo banche fuori da questo scandaloso giro, stiamo forse parlando forte e chiaro? Non tanto. La nostra cultura prevalente, che aveva eletto a modello le regole anglosassoni, sta balbettando. Eppure, in questi stessi giorni, la Procura di Trani si avvia a concludere l’indagine sulle agenzie di rating che avrebbero distorto i giudizi sui titoli del debito pubblico, provocando ingenti danni al Tesoro della Repubblica. Le accuse, naturalmente, andranno provate. Ma l’azione della magistratura e le sollecitazioni della Consob si inseriscono in una più generale critica del ruolo di queste agenzie, la cui reputazione è già minata dalla cecità dimostrata sui titoli tossici, emessi dai clienti che le pagano, e sul debito pubblico di Usa e Regno Unito, di cui sono culturalmente tributarie.
Nella patria di Adam Smith, il filosofo dell’economia di mercato (non necessariamente del capitalismo, preciserebbe Amartya Sen), si è dunque costituito un cartello che manipola uno dei prezzi più importanti e delicati del sistema economico, il Libor. Questo cartello è transnazionale. Lo compongono le banche americane JP Morgan Chase e Citigroup, le svizzere Ubs e Credit Suisse, la tedesca Deutsche Bank, le britanniche Barclays (ora al centro delle indagini), Hsbc e Royal Bank of Scotland, le nipponiche Bank of Tokyo-Mitsubishi e Sumitomo-Mitsui, l’olandese Rabobank, la francese Société Générale. Ma a operare sono le sedi di Londra: potentati con migliaia di persone, molte delle quali pagate profumatamente. I cartelli non li formano dipendenti infedeli. Sono i boss che si siedono attorno al tavolo. Questo cartello in particolare ha prosperato perché la City (si legga al proposito Le isole del tesoro di Nicholas Shaxson, tradotto in Italia da Feltrinelli) è uno Stato nello Stato, senza costituzione ma con seggio alla Camera dei Comuni, retto dalle consuetudini della sua oligarchia, che elegge il sindaco con il voto delle banche prevalente su quello dei cittadini.
Un cartello è un’associazione occulta che persegue nel tempo obiettivi di comune interesse per i soci. Nel caso specifico, la manipolazione del Libor, che in Italia comporterebbe l’accusa di aggiotaggio. Ergo, l’inchiesta colloca i signori della Barclays al centro di un’associazione per delinquere. La responsabilità è sempre personale, ma nei Paesi civili a rispondere sono anche le aziende nell’interesse delle quali il reato viene commesso. Nel caso londinese il maggior guadagno della banca è la premessa del bonus del boss, in quello delle agenzie di rating i beneficiari collaterali sono più difficili da individuare. Certo, in entrambi i casi le implicazioni sono sistemiche.
Il caso Barclays & affini, sia detto di passata, dovrebbe interessare anche la magistratura italiana, se risulterà che la manipolazione del Libor ha distorto i corsi di strumenti finanziari negoziati su mercati regolamentati italiani, ancorché il reato sia consumato all’estero. Ma il caso Barclays & affini e l’inchiesta di Trani interpellano soprattutto la politica, italiana ed europea.
Che senso ha farci fare la morale anticorporativa dal Regno Unito e accettare, come ha fatto l’Unione Europea, di allentare la vigilanza sui passaggi di partecipazioni bancarie in nome della libera circolazione dei capitali, quando la City, fonte dell’ispirazione, è un cartello che, per far guadagnare gli eletti, trucca la finanza globale e fa perdere tutti gli altri? Italia e Spagna devono fare i compiti a casa, decisi dalla Ue. Bene. Quali compiti Roma e Madrid chiederanno al governo inglese? Chiuderla con una multa di 290 milioni di sterline (a beneficio del Tesoro di Sua Maestà) sarebbe una beffa.
Nessuno, sia chiaro, vuol tornare al «Dio stramaledica gli inglesi» di Mario Appelius. Non foss’altro perché la risposta riguarda anche noi. Noi europei, che abbiamo disegnato il Trattato di Maastricht all’insegna del Washington Consensus, avendo in mente soltanto il debito pubblico e trascurando la bomba a tempo del debito privato orchestrato dalle banche finanziarizzate. Noi europei che abbiamo costituito la European Banking Association che dà i voti ai sistemi bancari nazionali sulla base di bilanci scritti in modi diversi, favorevoli a Londra e a Francoforte. Noi europei che abbiamo abbandonato le sagge prudenze degli anni Trenta — il Glass Stegall Act negli Usa, la legge bancaria del 1936 in Italia — per tornare alla banca come impresa votata al massimo profitto, modello anni Venti. Forse è giunto il momento di sgonfiare la bolla, tornando alla banca commerciale come infrastruttura dell’economia, come public utility strettamente sorvegliata e a rendimento contenuto. La speculazione finanziaria sarà il mestiere di altre entità, con diversi azionisti e senza protezioni pubbliche. Forse è giunta l’ora di capire che il primo monopolio si chiama City of London. E l’altro Wall Street, dove 4-5 banche controllano l’intera finanza derivata. Lì è la fonte del contagio, altro che Grecia. Da quella fonte ci dobbiamo difendere.