Giovanni Bianconi, Corriere della Sera 6/7/2012, 6 luglio 2012
QUELLA «SQUADRA D’ÉLITE» CHE PRESE BOSS E TERRORISTI CANCELLATA D’UN COLPO
La polizia italiana, la sua struttura investigativa che la rappresenta più di ogni altro settore, è stata decapitata. Le scorie della notte maledetta della scuola Diaz, undici anni dopo, hanno prodotto questo risultato e adesso il capo della polizia Antonio Manganelli (che all’epoca era vice-capo) dovrà correre ai ripari e ricostruire quella che è stata anche una sua creatura. Perché alcuni degli uomini che ieri sono stati condannati e interdetti dai pubblici uffici sono funzionari di sua stretta fiducia, oltre che nomi di spicco all’interno dell’amministrazione; persone che sono cresciute e hanno lavorato per anni al fianco del capo, per esempio nel contrasto alla mafia negli anni a cavallo delle stragi e in seguito, fino a ieri. Poliziotti che hanno svolto indagini importanti su Cosa nostra ma anche su altre organizzazioni criminali, e su tutti i fatti che hanno destato particolare allarme: dal calcio scommesse fino alla bomba di Brindisi, per citare i più recenti. Dirigenti che avrebbero potuto costituire l’ossatura della polizia nei prossimi anni, fino ai suoi vertici, e adesso si ritrovano fuori.
Ora si tratterà di ricostruire, verranno individuati gli uomini giusti. Ma la sentenza di ieri resta una sconfitta per la polizia. Da un lato per come è stato gestito il G8 e il dopo G8, nonché i processi che ne sono scaturiti a carico degli uomini delle istituzioni; dall’altro perché pagano alcuni e non altri, all’interno di quella istituzione. Il conto di un’irruzione cominciata male e finita peggio, dalle botte insensate alla falsificazione delle prove, è stato presentato ad alcuni nomi importanti: Francesco Gratteri, all’epoca direttore del Servizio centrale operativo, e poi a capo della Direzione centrale anticrimine; Giovanni Luperi, undici anni fa numero due della polizia di prevenzione e oggi in forza al servizio segreto interno; Gilberto Caldarozzi, allora vice-capo dello Sco che in seguito ha diretto. Un elenco che continua con i responsabili delle squadre mobili di Firenze, dell’Aquila e di altri importanti uffici.
Sono quelli a cui è stata imputata la truffa delle bottiglie molotov fatte ritrovare dentro la Diaz e falsamente attribuite agli occupanti, ma non sono stati loro a decidere la perquisizione da cui tutto è scaturito. E chi ha materialmente portato quelle «armi» all’interno della scuola, evidentemente per giustificare un massacro che non aveva ragione d’essere, non faceva capo a loro come struttura d’appartenenza. La ricostruzione giudiziaria di secondo grado ha attribuito una sorta di responsabilità collettiva delle false prove alla «catena di comando» presente sul posto, al contrario di quella del tribunale che aveva assolto gli imputati. In appello il verdetto è stato rovesciato, e ieri la Cassazione ha stabilito che non c’erano «vizi» di forma o legittimità in quella sentenza. Di qui la condanna e la conseguente estromissione dei condannati dai loro incarichi. Con un paradosso: per le lesioni, cioè le botte agli occupanti della Diaz, la giustizia per i pochi picchiatori individuati è arrivata tardi e il reato è stato prescritto; condannati invece coloro che sono stati ritenuti responsabili della tentata giustificazione di quelle botte.
Al di là delle considerazioni giuridiche che hanno permesso il ribaltamento dei giudizi tra il primo e il secondo grado senza la riapertura del dibattimento (cioè gli stessi fatti, sulla base delle stesse carte, sono state giudicati in maniera opposta) restano i dubbi logici proprio sulla paternità delle false prove: Gratteri e Luperi non hanno firmato alcun atto, ma sono stati ugualmente ritenuti responsabili. Hanno detto di essere stati ingannati, perché a loro era stato riferito che quelle bottiglie erano state trovate all’interno della scuola. Chi diede l’ordine di prenderle e chi le ha materialmente portate dentro la Diaz non ha mai spiegato come e perché nacque quella decisione, né l’indagine l’ha saputo ricostruire con certezza; tanto che i giudici di primo grado avevano assolto la «catena di comando». Tutto invece è stato ricondotto a un unico disegno, nonostante la scarsa compatibilità tra le persone che avrebbero ordito insieme un così grave e rischioso imbroglio.
Se poi si ritiene che l’aggressione sia stata pianificata a tavolino, così come l’imbroglio delle molotov, resta da capire perché sono rimasti fuori i veri vertici che decisero l’irruzione. A cominciare dall’allora vicecapo vicario Andreassi, presente a Genova insieme al capo della polizia di prevenzione La Barbera morto nel 2002, che acconsentì alla perquisizione sfociata nel massacro e ne difese l’esito mentre gli occupanti uscivano dalla scuola con le ossa rotte. Andreassi fu rimosso dall’incarico subito dopo la conclusione del G8, come La Barbera, ma non fu mai nemmeno inquisito. Il procuratore generale della Cassazione che ha chiesto e ottenuto la conferma delle condanne d’appello ha spiegato che «i processi si fanno ai presenti, non agli assenti». Giusto, ma per chi dai processi aspetta «verità e giustizia» resta da spiegare come mai nell’elenco degli imputati ci siano alcune assenze.
È un altro dei paradossi del verdetto di ieri. Chi decise la perquisizione è rimasto immune da conseguenze giudiziarie, nonostante la ricostruzione che alla fine ha prevalso inserisca anche la scelta di andare a cercare i black-bloc sospettati di aver devastato Genova in un unico proposito di vendetta e ritorsione per i disordini dei giorni precedenti.
Alla fine pagano poliziotti stimati che hanno sempre respinto l’accusa di aver falsificato le prove a carico degli arrestati, e la loro rivendicazione d’innocenza non era sufficiente. Un lungo e contrastato processo ha stabilito che sono colpevoli, ma è difficile sostenere che tutte le ombre siano state fugate. Non fosse perché in primo grado altri giudici avevano stabilito il contrario, e in appello non è arrivato alcun elemento nuovo. Era uno dei motivi dei ricorsi, respinto dai giudici «di legittimità». Appartenenti alla stessa sezione della Cassazione che quattro mesi fa ha evitato il carcere al senatore Dell’Utri, imputato di concorso in associazione mafiosa, annullando la condanna per l’insufficienza di una parte della motivazione pur confermando i suoi rapporti con i boss. Ieri invece, con una decisione che porta lo stesso timbro (sebbene i giudici siano diversi) sono stati allontanati dalla polizia alcuni investigatori che ai mafiosi hanno sempre dato la caccia. Vicende diverse, certo, e tutto s’è svolto secondo le regole. Ma è un altro paradosso.
Giovanni Bianconi