Enrico Franceschini, la Repubblica 6/7/2012, 6 luglio 2012
CITY– La foto di Bob Diamond abbracciato a un esultante Josè Mourinho spunta da uno scatolone sulla scrivania di quello che era fino a ieri il suo ufficio, un cubo di vetro al ventiquattresimo piano del quartier generale della Barclays Bank, tra i grattacieli di Canary Wharf, la nuova City della finanza sulle rive del Tamigi
CITY– La foto di Bob Diamond abbracciato a un esultante Josè Mourinho spunta da uno scatolone sulla scrivania di quello che era fino a ieri il suo ufficio, un cubo di vetro al ventiquattresimo piano del quartier generale della Barclays Bank, tra i grattacieli di Canary Wharf, la nuova City della finanza sulle rive del Tamigi. La Barclays è lo sponsor della Premier League, la “serie A” inglese, ed era Diamond a consegnare a ogni fine stagione la coppa al vincitore: soddisfazione doppia quando la mise qualche anno fa tra le mani dell’allenatore del Chelsea, sua squadra del cuore. Altri souvenir sportivi sbucano dallo scatolone, tra gli effetti personali accatastati dalla segretaria dopo le dimissioni del banchiere più ricco e potente di Londra. Ci sono il pallone con cui i New England Patriots vinsero il campionato di football americano e un gagliardetto dei Boston Red Sox campioni di baseball, di cui Diamond è rimasto appassionato tifoso anche dopo il trasferimento dagli Stati Uniti al Regno Unito, oltre a tante immagini di lui che allena le formazioni di basket, baseball e calcio in cui giocavano i suoi figli da piccoli. «Il nostro mestiere ha molto in comune con lo sport», amava ripetere l’ex-amministratore delegato della seconda maggiore banca britannica ai sottoposti. E spiegava: «In entrambi i casi, per avere successo, occorre un leader che indica l’obiettivo e un forte spirito di squadra per realizzarlo». Strano che non abbia applicato subito la metafora al contrario, quando si è scoperto che la squadra alle sue dipendenze truccava le partite. Per giorni, mentre infuriava lo scandalo delle manipolazioni del Libor, il tasso interbancario da cui dipendono le speculazioni più sofisticate ma pure i mutui sulle case e gli interessi sulle carte di credito, l’“allenatorecapo” della Barclays ha ostinatamente rifiutato di assumersi le sue responsabilità. Ci è voluta una telefonata nel cuore della notte di Marcus Agius, presidente della Barclays e peraltro anche lui dimissionario, a convincerlo: «Bob, vogliono tutti la tua testa». Tutti, ovvero la Banca d’Inghilterra, la Financial Services Authority, il governo. Destino ha voluto che l’annuncio delle dimissioni sia venuto esattamente un anno dopo la deposizione di Diamond davanti alla commissione d’inchiesta sul crac finanziario del 2008, quando affermò in tono sprezzante: «Il tempo del rimorso, per i banchieri, è finito». Frase degna di Wall street, il film di Oliver Stone tratto dal romanzo di Tom Wolfe, sui “padroni dell’universo” che governano il pianeta dalle cittadelle del capitalismo. «Greed is good», l’avidità è bella, sosteneva il protagonista della vicenda, parole che potevano stare bene anche in bocca a Bob Diamond. Invece ora avidità e banchieri sono di nuovo sotto accusa. «Mi sono sentito fisicamente male quando ho saputo che i miei trader festeggiavano gli imbrogli sul Libor regalandosi bottiglie di champagne Bollinger», ha ammesso Diamond questa settimana. Non è la prima volta che critica certi eccessi: due anni or sono definì «imbarazzante» il conto di un pranzo da 44 mila sterline (50 mila euro) pagato da tre suoi broker nel più esclusivo ristorante della City per celebrare i bonus di fine anno. Ma adesso non basterà rinunciare a caviale e champagne, né sarà sufficiente licenziare un “allenatore”, per ripristinare la reputazione della Barclays e della City. Altre venti banche inglesi sono accusate di manipolazioni del Libor simili a quelle della Barclays. Si difendono sostenendo di avere truccato i tassi su pressioni della Banca d’Inghilterra. Questa avrebbe cercato di influenzarle per fare un piacere al governo, stufo di salvare dal fallimento banche private con denaro pubblico. I fatti risalgono a quando a Downing street c’era il laburista Gordon Brown, ma oggi la City sostiene a suon di donazioni il conservatore David Cameron, per cui governo e opposizione si scambiano accuse a vicenda. Il denaro non ha odore, insegna l’antico motto latino, ma da questa vicenda esala dunque una generale puzza di marcio. «È ora di fare qualcosa per cambiare la struttura e la cultura delle banche, dai compensi eccessivi ai banchieri alle truffe vere e proprie a scapito della società», tuona Mervin King, governatore della banca centrale inglese. «La cinica avidità dei banchieri che falsificavano il tasso Libor per fare maggiori profitti ha comprensibilmente scioccato e sdegnato l’opinione pubblica, in particolare in un momento di grave crisi economica provocata dalla crisi finanziaria degli anni scorsi », s’arrabbia lord Turner, presidente della Financial Services Authority (l’agenzia che regolamenta il settore). «Le banche hanno accumulato un potere troppo grande e troppo concentrato nelle mani di pochi», concorda John Plender, columnist del Financial Times. Le critiche non provengono da rivoluzionari marxisti, bensì da seguaci del mercato e del capitalismo, il che rende ancora più ineluttabile una resa dei conti. Ma come? E con chi? «Bisogna riformare il sistema, fare pulizia e farla in fretta», commenta un banchiere italiano della City, preferendo mantenere l’anonimato, «la finanza è la prima industria britannica e Londra è la più importante capitale finanziaria mondiale, questa è una macchia che può danneggiare entrambe ». Ci sarà una pubblica inchiesta. Porterà a più regulation e controlli? A una riforma che divida le banche in due, di qua il settore investimenti, di là l’attività tradizionale di risparmio e prestiti? «È il minimo necessario », ritiene l’Economist, se si vuole cancellare la destabilizzante impressione che la City sia non solo il centro del “casinò banking”, ossia della finanza trasformata in gioco d’azzardo, ma addirittura una bisca di bari con gli assi nascosti nelle maniche. Tuttavia per Alan Rusbridger, direttore del filo-laburista Guardian, il danno rischia di essere più ampio: «Lo scandalo dei rimborsi spese truccati dei deputati ha dimostrato che la politica è disonesta, il Tabloidgate dei giornali di Rupert Murdoch sta dimostrando che gran parte dell’informazione e dei media sono disonesti, ora il Liborgate potrebbe rivelare che sono disoneste anche le banche». Le istituzioni (tranne la magistratura) che hanno fatto grande la Gran Bretagna sono insomma finite nella fogna, e proprio alla vigilia delle Olimpiadi che dovrebbero mettere Londra in vetrina davanti al mondo. Qualcuno si era accorto che Bob Diamond era un simbolo pericoloso per la cittadella finanziaria sul Tamigi. Era il più ricco, 100 milioni di sterline di bonus in sei anni. Era americano, nel tempio costruito da pallidi banchieri con bombetta ed ombrello. Ed era troppo arrogante per capire la lezione dell’understatement inglese, la regola non scritta che suggerisce di non fare gli sbruffoni. «Il volto impresentabile del capitalismo », lo definì Peter Mandelson, guru del blairismo. E quando un anno e mezzo fa promossero Diamond da capo del settore investimenti a capo supremo della Barclays, il suo direttore del marketing ebbe un dubbio: scusa, Bob, gli chiese, ma tu hai mai ritirato del contante con un bancomat? «Cavolo, no di certo, se ho bisogno di cash mando la segretaria a prendermelo», rispose ridendo il boss. Lo presentarono alla stampa in una filiale della Barclays, per umanizzarlo, ma fu un disastro: sembrava un pesce fuor d’acqua. Non vedeva l’ora di tornare nel suo cubo di vetro, tra la foto con Mourinho, il pallone ovale dei Patriots e il gagliardetto dei Red Sox, convinto che un allenatore non debba avere mai rimorsi.