Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  luglio 06 Venerdì calendario

Il corpo, ben formato e nutrito, fu rinvenuto coricato e svestito il 5 agosto 1962. Era il corpo più desiderato degli Stati Uniti d’America

Il corpo, ben formato e nutrito, fu rinvenuto coricato e svestito il 5 agosto 1962. Era il corpo più desiderato degli Stati Uniti d’America. Nell’istante del decesso pesava 53 chili e misurava 166 centimetri in lunghezza. Dal 23 febbraio 1956 il suo nome legale era Marilyn Monroe. Era nato 36 anni addietro, la mattina del 1° giugno 1926. Sua madre, Gladys Monroe, l’aveva registrato con il nome di Norma Jeane Mortenson. Norma Talmadge era una stella del cinema muto di allora e a Gladys, che faceva la montatrice, il nome Norma parve il migliore degli auspici. Dicono che pure Jeane fu scelto in onore di una stella, Jean Harlow. Ma non è possibile; Jean Harlow si chiamò così solo a partire dal 1928. Dopo appena 13 giorni di vita, il corpo destinato a diventare Marilyn Monroe fu lasciato in affidamento a una famiglia che odiava il cinema. Sai cosa ti succederebbe se il mondo finisse e tu fossi in un cinema? Bruceresti all’inferno assieme ai malvagi, diceva sempre Ida Bolender. Ida Bolender e suo marito Albert, gli affidatari della piccola Norma Jeane, erano religiosissimi. Gente che andava in chiesa, non al cinema. Nella piccola Norma Jeane già cresceva però il corpo di Marilyn. Fu così che una notte sognò di ritrovarsi in chiesa ma senza abiti indosso. Camminavo nuda tra i fedeli prostrati, ricorderà anni dopo il corpo di Marilyn. Mi sentivo libera ma stavo attenta a non calpestare nessuno. Il sogno racchiudeva un destino da divinità infelice: un corpo da adorare; un’anima inerme e gentile, costretta in un involucro peccaminoso. Nel 1945 divenne Miss Lanciafiamme. Nel 1947 Miss Regina dei carciofi California. Nel 1949 apparì nuda sul calendario sexy Miss Sogni d’Oro. Si fece fotografare così perché non sapeva come pagare l’affitto, perché era ancora nessuno e perché credeva che non l’avrebbe danneggiata. Divenne famosa e un uomo la ricattò. Non cedette. Ho posato nuda per necessità, rivelò alla stampa. Cominciarono ad amarla anche per questo. Ero senza lavoro e mi servivano 50 dollari per riprendere l’auto pignorata, spiegò. Cercare lavoro a Los Angeles senza auto non è pensabile. Vera o inventata che fosse, quella storia era il suo ritratto sputato. Un miscuglio di candore e spudoratezza. La tempesta erotica perfetta. La raccontò accostando un fazzoletto al viso, sicché quella del calendario sexy divenne anche la storia toccante di una bambina abbandonata. Si cominciò a ricamare sulla sua infanzia difficile. Le famiglie adottive divennero quattordici. E poi orfanotrofi, stupri e altre violenze. Si sparse la voce che qualcuno, un parente, forse finanche la madre, avesse tentato di ucciderla in tenera età, soffocandola con un cuscino. La mia infanzia è uguale a un film che tra poco vedrete al cinema, disse alla stampa. Eccetto un piccolo particolare: io sono sopravvissuta. In quel film, La tua bocca brucia, il suo corpo si calava nei panni d’una baby-sitter che lega e imbavaglia un infante e quasi lo strangola. Nonostante il fondo di verità e malgrado le esagerazioni, non si nascose mai dietro il suo passato. Sì, sono stata su un calendario, diceva. Sono stata su calendario perché non voglio essere una donna per pochi. Io voglio essere per tanti perché anch’io ero una fra tante un tempo. Voglio un uomo che, rientrando in casa dopo una giornata di duro lavoro, mi guardi in quel calendario e ne resti così ispirato da dire: Wow! Un uomo, lo aveva già, in effetti. Ma non era affatto uno fra tanti. Quanto ai calendari, non erano esattamente la sua fonte di ispirazione. Joe DiMaggio sognava una donna che nulla sognasse fuorché un focolare. Né per pochi né per tanti dunque. Voleva una Marilyn soltanto per sé. La vide in una foto. Indossava una tenuta da baseball con gonnellino e imbracciava una mazza, pronta a ricevere un lancio. Volle conoscerla. Gli spiegarono che era un’attrice, una stella in ascesa. Joe nutriva scarsa simpatia per il mondo di Hollywood ma volle comunque conoscerla. Lei non aveva mai visto una partita di baseball. Lo sport era in cima ai suoi disinteressi. Al primo appuntamento lo fece aspettare due ore. Non poteva funzionare e non funzionò. Ma c’era qualcosa. Lui aveva fatto la sua strada e fu affettuoso e prodigo di consigli. Come un padre. Per lei che non aveva mai avuto un padre; per lei che era abituata a uomini che miravano solo al sodo, fu una novità, una specie di rifugio. Aveva la grazia di un’opera di Michelangelo. Si muoveva come una statua, dirà lei di lui. Durò finché della statua non rimase che la pietra. Capitava che non mi parlasse per giorni. Se gli chiedevo cosa non andasse, mi diceva di non assillarlo. Non poteva funzionare, non funzionò. Quando la moglie è in vacanza segnò la definitiva rottura. Chi non ricorda la scena della gonna sollevata dal passaggio della metropolitana? Joe piombò sul set nel momento topico. Lexington Avenue era piena di fotografi, curiosi e gente comune, tutti in attesa di scorgere Marilyn. L’addetto agli effetti speciali azionò il ventilatore posto sotto la strada e un fiotto d’aria scoprì le gambe e un paio di mutande bianche. Si levavano grida di giubilo mentre Joe DiMaggio si pietrificò una volta per sempre, diventando una statua di rabbia. Fine di un matrimonio. Fu lei ad avviare le pratiche per il divorzio. Una ragazza accorta bacia ma non ama, ascolta ma non crede e lascia prima di venire lasciata. Era davvero così saggia Marilyn? Forse no. Di certo possedeva un cervello che, testato, rivelò un QI più che superiore alla media nazionale. Molte foto la mostrano immersa in letture complesse: Joyce, Rilke, Freud. Non erano pose. Cercava risposte e sicurezze; sposò Arthur Miller. Credeva, o magari sperava soltanto, che diventando la moglie di Miller sarebbe diventata pure una persona migliore d’un semplice calendario. Perché questo voleva: essere una persona migliore, non una moglie. Per questo era sempre in ritardo: per la paura di non essere all’altezza. Ho recitato la parte di Marilyn Monroe, solo e sempre Marilyn Monroe. Ho cercato di farla al meglio e mi sono ritrovata a imitare me stessa. Sposando Arthur credevo di poter essere qualcosa di diverso, di poter fuggire da Marilyn Monroe, ma sono tornata a essere la cosa di sempre. Consegnato al passato un altro matrimonio, il corpo che non poteva essere altro se non Marilyn Monroe avanzò deciso verso la sua catastrofe. Al gala per il presidente d’America, il corpo fu annunciato come «la ritardataria Marilyn Monroe». Ma non era in ritardo. Non più perlomeno. Cantò Happy Birthday Mr. President fasciata da un vestito color carne e in quel vestito era scritto un destino ormai prossimo al compimento. Mancava poco affinché l’ordalia di champagne e barbiturici facesse il suo corso. E nulla importa se fu un Kennedy a dare il colpo di grazia. Ti prego, non farmi apparire ridicola, disse al suo ultimo intervistatore. Non era una preghiera, ma il perché di tutto, di ogni suo timore. Perché non era che una bambina impaurita, prigioniera di un corpo più grande di lei e dei sogni degli uomini, di sogni che non erano i suoi.