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 2012  luglio 05 Giovedì calendario

L’EROE BORGHESE E QUEL SUD IMPUNITO


Non se li vedeva, addosso, i panni dell’eroe. Eppure l’ammazzarono come un giudice antimafia o come uno sbirro tenace, di quelli che mettono paura ai cattivi. Con due pallottole di calibro 38 tagliate a croce sulla punta per fare più danno. Qualcuno a Foggia doveva avere molta paura di quell’uomo dal sorriso mite, che ripeteva ai figlioli «lo Stato siamo noi» sedendosi a cena dopo una giornata dura di fatica e pressioni, allusioni e minacce velate dentro stanze dove funzionari opachi e spicciafaccende professionali trattavano con costruttori, notai e mediatori d’affari imbrogli da miliardi delle lire di quel tempo.
Così aspettarono Franco Marcone nell’androne di casa, mentre tornava dal suo lavoro di direttore dell’ufficio del Registro, alle sette e dieci di sera d’un 31 marzo di diciassette anni fa: un colpo in testa, uno nella schiena, lui cadde sul primo gradino di marmo. Nulla è cambiato, qui, nel portone di via Figliolia 17. E nemmeno al terzo piano: c’è la grata di sicurezza che fece mettere Franco davanti all’uscio, poco prima di morire. «Era teso, molto», dice Daniela, la figlia. Lei allora aveva 25 anni: «Stavo rientrando, quella sera. Vidi le sue scarpe e poi lui, con le sue carte da lavoro a terra. E gridai: assassini, assassini!». Assassini, sì, e impuniti. Diciassette anni e una lunga catena di cantonate e omissioni dopo, l’inchiesta è archiviata senza colpevoli. Daniela milita in «Libera», l’associazione di don Ciotti, per l’anniversario hanno affisso manifesti neri, tremendi: nessuno lo ha ammazzato, noi sappiamo ma non abbiamo le prove. In città è scoppiato il putiferio, perché questa vittima senza giustizia mette ancora paura o, almeno, turba le coscienze. «Questa era ed è una città morta», ci racconta Daniela nel soggiorno di via Figliolia, con il fratello Paolo accanto. Tutti e due lavorano nell’amministrazione finanziaria dello Stato, come papà, Paolo nell’Agenzia delle Entrate, il mestiere più simile a quello di Franco. La madre è morta di dolore. Papà Franco faceva denunce: con l’ultima, nove giorni prima di morire, mandò dentro un collega.
«Qui ti fanno tremare», mormorava. Ma badava a fare il proprio mestiere. Daniela ricorda: «Una volta, ero bambina, lui lavorava a Cerignola, mi tenne in ufficio con sé. Vennero dei contadini con le scarpe piene di fango, a protestare per non pagare le tasse. Pensai che li cacciasse. Invece si sedette tra loro, a spiegare che i soldi delle tasse tornavano indietro a ciascuno di loro in scuole, medicine, per tutti, perché... lo Stato siamo noi. Avremmo dovuto metterla sulla lapide questa frase».
La Foggia che uccise Marcone era una città di provincia cupa e terrorizzata, dove camorra e sacra corona unita incrociavano gli interessi di costruttori e professionisti, il piano regolatore e le nuove aree fabbricabili muovevano business miliardari, un’imposta del registro in più o in meno spostava cifre a nove zeri; si sparava e spesso: due anni prima era stato trucidato Giuseppe Panunzio perché non si piegava al racket, era appena andato in consiglio comunale a vedere che fine facesse una sua pratica. I morti passavano sotto silenzio, a Marcone i giornali nazionali dedicarono trenta righe nelle cronache.
Qualche anno fa è sceso qui Gherardo Colombo, ha detto che «Marcone è l’Ambrosoli del Sud», un piccolo eroe borghese che è andato incontro ai suoi carnefici per senso del dovere. «Non ho mai pensato che fosse un Ambrosoli», sospira invece Stefano Caruso, e questa frase porterà nuovo tossico in una vicenda già molto avvelenata: «Faceva degli errori sulle pratiche, forse era stanco». Caruso, direttore regionale per le Entrate della Puglia, era il capo di Marcone. E per un periodo gli cucirono addosso i panni dell’infame, lo misero agli arresti domiciliari con l’accusa di omicidio. Fu un abbaglio, Caruso è stato riconosciuto innocente e risarcito con 50 milioni per l’ingiusta detenzione. È tuttavia un uomo amareggiato: «Io feci piazza pulita di dirigenti corrotti», rivendica, attribuendosi in qualche misura la medaglia d’eroe che la storia ha appuntato sul petto del suo sottoposto. La sua vicenda incrocia quella di Marcone in modo inestricabile, a cominciare da una pratica «maledetta», l’affare Foar, che entrambi ebbero per le mani. Nemmeno due anni prima del delitto, all’antivigilia di Natale del ’93, gli presero a revolverate la porta di casa, potevano ammazzarlo. Una delle figlie riconobbe l’attentatore in foto: era Raffaele Rinaldi, un balordo che lavorava nell’ufficio di Marcone e che Marcone aveva fatto allontanare. Solo molti anni dopo si scoprirà che la pistola dell’attentato a Caruso era la stessa del delitto Marcone, un ritardo assurdo come quello nel chiedere i tabulati telefonici o nel sentire familiari e colleghi di Marcone. Rinaldi, coi suoi contatti con la mala e i suoi rapporti con la Foggia dei quattrini e delle professioni, morrà in un incidente di moto che sarà la pietra tombale dell’indagine. Se fu l’assassino, ha portato con sé i nomi dei mandanti. In una città sfibrata, riecheggiano ancora le parole del vescovo Casale, 17 anni fa: «Quanti omicidi dovremo ancora attendere prima che si faccia piazza pulita dell’omertà?».
GoffredoB