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 2012  luglio 05 Giovedì calendario

LE BATTAGLIE DI ALGERI


Il Governo provvisorio arrivò nel centro d’Algeri su un autocarro. I ministri, tra i quali non mancavano i capi storici della rivoluzione, erano ammassati nel cassone, in piedi, come muratori diretti al cantiere. La semplicità di quell’apparizione attizzava l’entusiasmo della folla. I vincitori della lotta armata erano in maniche di camicia. Senza mitra e pistole. La scorta armata si era perduta tra la gente in delirio. Forse non c’era. Era quella l’autentica immagine della nuova Algeria?
In realtà la manciata di uomini che attraversava la capitale della nazione da poche ore ufficialmente indipendente, dopo centotrentadue anni di dominio francese, rappresentava un potere fragile, anzi già esautorato, ma nei suoi ultimi momenti di rappresentanza essa incarnava l’orgoglio di un popolo che per conquistare la dignità nazionale aveva perduto centinaia di migliaia di uomini e donne. «Un milione di morti», proclamava l’Fln, il Fronte di liberazione nazionale, arrotondando le cifre.
Era il 3 luglio di cinquant’anni fa ed io ricordo la mia affannosa ricerca di un telefono con il quale trasmettere la cronaca di quel giorno in cui si concludeva trionfalmente la guerra più sanguinosa della decolonizzazione africana. Fino a quel momento, la sola indipendenza nel continente strappata armi alla mano. Una lotta armata sostenuta da non molti ma neppure pochi occidentali. Ne auspicavano il successo l’America di Kennedy e i partiti di sinistra europei. E tanti intellettuali francesi. Sartre in testa, ma anche liberali come Raymond Aron. Alcuni erano portati dall’entusiasmo a credere che in quel coraggioso paese dell’Africa del Nord si potesse realizzare ciò che non era stato possibile alla caduta del nazismo e del fascismo in Europa. Nello slancio non tenevamo
conto della realtà algerina.
Andandosene, i francesi si erano portati via anche i telefoni. Per questo faticavo a trovarne uno. Era con me, in quelle ore, Kateb Yacine, uno dei grandi scrittori algerini, che anni dopo sarebbe stato accompagnato al cimitero da amici che alternavano l’Internazionale e i versetti del Corano. Quel 3 luglio Kateb mi urlava dietro che era un bene che io non trovassi un telefono. Cosi non avrei trasmesso una cronaca falsa. Era infatti scontato che era mia intenzione descrivere con toni trionfalistici un avvenimento storico, mentre quello che si svolgeva sotto i nostri occhi era per lui una tragedia.
Non detti retta a Kateb, del quale avevo una grande stima. Era l’autore di Nedjma, un romanzo scritto in francese con uno stile faulkneriano, che aveva come sotto fondo la strage di Setif, nel ‘45, quando i francesi risposero con i cannoni e il napalm agli algerini che chiedevano anche per il loro paese la libertà appena ottenuta dalla Francia. Libertà per la quale molti algerini avevano combattuto nei ranghi dell’Armée. Ma quel giorno non vedevo la tragedia che lui, Kateb, leggeva nella folla che accoglieva con entusiasmo il Governo provvisorio dell’Algeria indipendente. E festeggiava la fine di una guerra che aveva travolto persino le istituzioni della “métropole”, come veniva chiamata allora la Francia.
Infatti (nel ‘58), in seguito alla rivolta dei militari francesi d’Algeria, reduci dall’umiliazione indocinese, conclusasi con la sconfitta di Diem Bien
Phu (1954), e di nuovo delusi dai governi parigini scarsamente solidali, si era spenta la Quarta Repubblica, ed era ritornato al potere il generale de Gaulle, fondatore della Quinta Repubblica semi presidenziale. E, realista, il generale aveva trattato, tre anni dopo, con i capi dell’-FLN, per arrivare all’indipendenza dell’Algeria. Accettando cosi la sconfitta in una guerra (di guerriglia) cominciata nel 1954, ma da tempo in incubazione.
La società umiliata, e violentata, sulla quale si era sovrapposta una società europea (un milione di cosiddetti pieds noirs), era pronta ad esplodere. Anche se non sempre concorde sulla natura dei rapporti da conservare con la Francia, fonte di repressione e al tempo stesso di idee emancipatrici.
A scuola si insegnava la rivoluzione dell’89, e con essa i principi di libertà, uguaglianza e fraternità, mentre nel paese si
praticava la repressione, la disuguaglianza e la discriminazione. De Gaulle era comunque un pragmatico e detestava inoltre i coloni europei d’Algeria che l’avevano osteggiato negli anni difficili, quando lui rappresentava la Francia libera non rassegnata all’occupazione nazista. Chiunque governasse in Francia non poteva mantenere in permanenza centomila uomini armati in Algeria; né era in grado di contenere
la crescente opposizione interna a quella guerra; e ancor meno di sostenere l’ostilità del mondo arabo, di cui la Francia aveva bisogno.
Tra i negoziatori, impegnati a discutere con i francesi, per mesi, a Evian, in Svizzera, c’era Benjucef Benkhedda, poi diventato primo ministro del Governo provvisorio, e quindi quel 3 luglio in piedi, sul cassone del camion, che attraversava le strade di Algeri, fendendo una folla entusiasta, benché immersa in cinquanta gradi di caldo mediterraneo umido. Benkhedda era un farmacista, come era un farmacista Ferhat Abbas, il suo predecessore. Due uomini moderati, tenaci combattenti nella lotta per l’indipendenza, ma sensibili ai richiami democratici occidentali, e spesso in contrasto con gli altri dirigenti della rivoluzione, marcati dalla lotta armata e favorevoli a soluzioni autoritarie. Anche perché la società algerina, non disponendo di capitali e di una borghesia imprenditoriale, quella esistente essendo di stampo francese, non poteva che imboccare la strada di un socialismo senz’altro arabo, con venature islamiche, ma con chiari riferimenti al sistema sovietico. Non c’era mai stato, in realtà, un vero dibattito politico in seno alla resistenza, dopo il Congresso della Summam, nel ‘57, che si era concluso con sanguinosi regolamenti tra fazioni. E qualche settimana prima dell’indipendenza, la riunione di Tripoli si era conclusa con un nulla di fatto. Tanto che il Governo Provvisorio che percorreva le strade d’Algeri rappresentava soltanto se stesso. Aveva in quelle ore l’appoggio popolare, perché era il simbolo dell’Algeria indipendente. Ma il potere era altrove. Risiedeva nell’“esercito delle frontiere”,
negli ottanta mila uomini ben armati e organizzati schierati al confine tunisino e marocchino, al comando del colonnello Huari Bumedien, e pronto a marciare su Algeri.
Kateb Yacine pensava a questo mentre cercava invano di dissuadermi dallo scrivere una cronaca trionfalistica. In quelle ore la rivoluzione vittoriosa veniva tradita dai suoi. Questa era la tragedia. Kateb diceva che i militari agli ordini di Huari Bumedien erano stati contagiati dai paras francesi del generale Massu. Non a caso alcuni ufficiali dell’esercito di Huari Bumedien venivano dall’Armée che avevano disertato. Mentre la Francia si sta liberando dei suoi paras mettendo fine alla guerra, noi ci prepariamo ad accogliere le loro imitazioni. Questo diceva sconfortato Kateb Yacine. E io non lo ascoltavo, perché la sua disperazione affogava spesso nella birra.
Ad Algeri si festeggiava un governo provvisorio ignorando che avesse ancora qualche ora di vita. Non di più. Ahmed ben Bella, arroccato a Tlemcen, era pronto a piombare su Algeri con l’aiuto degli uomini dell’allora quasi ignoto colonnello Bumedien, deciso a usare per un po’, un paio d’anni, la grande popolarità di ben Bellah, eroe della prima ora e celebre ospite delle carceri francesi. Il moderato Benkhedda e i suoi ministri erano insomma sul punto di essere messi al bando. E con loro i principi democratici che sostenevano.
Intanto nelle campagne si regolavano i conti. Collera, odio, gioia, entusiasmo, speranza. Tutti i sentimenti raggiungevano il parossismo. Il sangue colava abbondante. E per fortuna era ancor più abbondante il vino che inondava le cantine delle fattorie france-
si abbandonate dove i contadini in rivolta sventravano le botti. Del milione di coloni, in gran parte poveri, ne erano rimasti molto pochi. In quei giorni ho visitato il ghetto di Orano semideserto. Erano rimasti soltanto vecchi ebrei che non volevano abbandonare la terra dei loro antenati, e che vagavano smarriti per le strade ingombre di masserizie piovute dalle finestre di chi se ne andava. Prima di partire molti avevano ucciso
persino i gatti, i cui resti appestavano
l’aria.
I francesi si erano impegnati evacuare Harki e Moghazni, algerini appartenenti a formazioni paramilitari francesi, spesso impegnate contro la resistenza. L’onore impediva a de Gaulle di lasciare in balia alle vendette i collaboratori dell’esercito francese, considerati traditori dagli algerini. Ma l’onore non è stato rispettato fino in fondo, perché la Francia ha portato in salvo soltanto circa quarantamila Harki, lasciando che altre migliaia venissero uccise o torturate nei villaggi.
Gli avvenimenti svoltisi quasi in segreto nelle ore dell’indipendenza hanno marcato il destino dell’Algeria indipendente. Riducendo all’essenziale in quelle ore si sono scontrati tre elementi: i capi della Wilaya, le regioni in cui era suddivisa la resistenza, il Governo provvisorio, e l’“ esercito delle frontiere”. Ha vinto quest’ultimo, il più forte. Portato subito al potere dal colonnello Bumedien, e dai suoi ottanta mila uomini, Ahmed ben Bella ha cercato invano di dare un’impronta politica libertaria al suo regime. Stanchi di quello che consideravano un insopportabile disordine, (nel 1965) i militari hanno preso direttamente il potere, e cacciato ben Bellah. E quelli che Kateb chiamava “i nostri paras” sono ancora, più o meno nascosti, nei posti di potere. Il 3 luglio di cinquant’anni fa resta tuttavia un grande giorno. Cosi l’ho vissuto e non me ne pento. Èsempre un momento particolare quello in cui un popolo prende in mano il proprio destino. E quindi la propria dignità nazionale. Che cosa poi ne sappia fare, in particolare sul piano dei diritti individuali, è un altro capitolo.