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 2012  luglio 05 Giovedì calendario

L’OBBEDIENZA DI RENATO DAL LODO PER SILVIO ALLE TRAME PER LE NOMINE


Quanta fatica per ritornare al punto di partenza, e quale beffardo esito si è risolto nell’antica obbedienza. Era quasi un anno che il presidente del Senato Schifani sommessamente, cautamente, facendo il vago perfino, ma anche con l’instancabile operosità che tutti gli riconoscono, si dava da fare per ritagliarsi, più che conquistarli, piccoli, ma promettenti spazi di autonomia.
Da chi è oggi quasi inutile dire. Più interessante, semmai, è notare che tale volontà era cominciata a manifestarsi proprio in coincidenza con la crisi terminale del berlusconismo. Non solo, ma questo embrione di indipendenza - sui referendum, sulle riforme «condivise», sul ruolo da assegnare al giovane Alfano - aveva preso ad accentuarsi con il disastro autunnale del governo; fino a rendersi visibile agli addetti quando il Pdl era definitivamente esploso e il Cavaliere, umiliato in Europa e invischiato nel più grottesco dei processi, aveva abdicato a favore di Monti. A quel punto, da semplice volontà di sopravvivenza, quella della seconda carica dello Stato ormai decisamente assomigliava alla classica e perciò inconfessabile voglia di tutti i politici. In
altre parole Schifani, pur con tutta la prudenza del mondo, andava chiedendosi se magari era possibile trarre vantaggio dalla disgrazia.
Non sono cose che si vanno a raccontare ai giornalisti. Ma certo da qualche tempo si affacciava in enormi foto dai quotidiani amici come il
Tempocon
un sorriso appena accennato, ma ecumenico, tranquillizzante. «Il grande mediatore », lo chiamavano, «il tessitore del dopo Silvio». E sembrava di cogliere una parabola in quelle definizioni, come se solo il più tignoso e irritante dei berlusconiani, l’uomo che per primo aveva dato il suo nome al lodo per salvare il presidente dalle sue grane, potesse in qualche modo raccoglierne
l’eredità.
E intanto Schifani benediceva le intese presenti e future, si faceva
garante dei partiti, di tutti i partiti, presso i professori, sempra auspicando di «allargare il campo dei moderati». Berlusconi, l’uomo a cui doveva la sua straordinaria carriera e che in passato aveva
lodato come il Re Sole, sembrava distratto, o confuso. Ma lui nel frattempo presiedeva, celebrava, visitava le truppe italiane all’estero, auspicava che il governo procedesse con le riforme, anche a costo di ricorrere con frequenza alla decretazione d’urgenza.
E il nemico dei giudici, pure con qualche problema giù in Sicilia, incontrava il segretario dell’Associazione magistrati, Palamara; lo stratega della guerriglia di Palazzo Madama contro il governo Prodi si sbilanciava sulla necessità di modificare il Porcellum; il difensore d’ufficio di qualsiasi norma
ad personam,
concedeva addirittura «la priorità» al provvedimento contro la corruzione. Un giorno arrivò addirittura a esprimere la sua preferenza per Holland. I sondaggi, i soliti sciagurati lenoni del consenso, parevano premiarlo: «Sale la fiducia degli italiani in Schifani» si è potuto leggere. Vai a sapere come Berlusconi, dal suo mare di guai, accoglieva quegli indici di popolarità e quell’attivismo schermato dalle istituzioni. Chissà cosa aveva pensato il Cavaliere di quel senatore leghista,
Montani, che durante un parapiglia a Palazzo Madama si era rivolto al presidente dell’Assemblea: «Sei un pagliaccio!» .
Ma Schifani l’aveva perdonato. A giugno si era concesso di intervenire nel dibattito del Pdl con un approccio pensoso, tipo statista, e una premessa che più quirinabile non si poteva: «Continuerei a stare dentro i confini della terzietà, se la crisi non fosse così aggressiva e lacerante, e l’Italia sempre più stremata...». Il giorno in cui Berlusconi l’aveva fatto eleggere presidente del Senato, era andato a Palazzo Grazioli a esprimere i sensi della sua riconoscenza, e pure il giorno dopo. E ora sul
Foglio
per giunta, sosteneva che imitare Grillo no, non si poteva. In passato se l’era presa con il ribelle Fini, lasciando pure che al Senato si parlasse della casa di Montecarlo, e adesso sosteneva che cacciarlo in quel modo era stato un errore.
«Berlusconi - disse anche Schifani - deve fare un’operazione verità ». Là dove non sfuggiva il senso inaudito di quel verbo: «deve». Bene, ecco, ieri, sulla Rai, la più netta impressione è che sia stato Berlusconi a far fare a Schifani un’operazione verità, e anche veloce. E tutto ritorna dunque al suo posto. E la libertà di solito non va d’accordo con il potere.