Francesca Barra, Sette 29/6/2012, 29 giugno 2012
LASCIO IL RUGBY MEGLIO GLI ASINI
Per gli appassionati di rugby è un’icona. “Un dio”, scrivono sui social network, “altro che calciatori, questi sì che sono sportivi”. Parlano di Andrea Lo Cicero Vaina, il giocatore in attività col maggior numero di presenze in Nazionale italiana e il terzo al mondo come quantità di caps (gare con una squadra). Il “monumento” annuncia il suo ritiro per seguire una passione alquanto bizzarra. E non quelle già annunciate negli anni, “finire gli esami di medicina” o “diventare uno chef” (fra i fornelli, peraltro, pare essere un talento al pari del rugby), ma un ritiro in cascina, nel Viterbese dove, dice: «Mi dedicherò all’onoterapia, i trattamenti terapeutici con gli asini. Animali che mi ricordano molti sportivi: te ne occupi finché servono, poi se ne dimenticano tutti». E mentre in Italia si discute sulla credibilità dei giocatori dello sport nazionale, il calcio, il “Barone”, nome di battaglia che deriva dalle sue origini nobili, parla dell’onore del rugby: «Ha una sua filosofia, è quasi una fede. È uno sport etico».
Un quintale distribuito su un metro e 85 d’altezza, che poggiano su un 47 di piede, un orecchio rotto, molti i tatuaggi: un dio maori, sul petto una palla ovale con dentro una faccia divisa fra l’espressione triste e quella sorridente (come dice di essere lui), sul braccio una pantera stilizzata. E pensare che per un pelo non è diventato medico. Nato a Catania da genitori medici (mamma pediatra, padre neuropsichiatra infantile), racconta: «Sono andato via dalla Sicilia, ma ho mantenuto tutto lì: amici, affetti. E come tutti i siciliani, ho conosciuto la mafia, ma per fortuna solo marginalmente. Potevo cadere in un vortice di apparente e facile benessere. Invece, tramite la Croce Rossa e la famiglia ho potuto scegliere la strada più giusta». Così Andrea, dopo essersi distinto ai piedi dell’Etna fra gli amici per essere sempre il “più grosso” («Dimostravo tre anni in più di quelli che avevo»), si è dedicato alla lotta greco-romana; poi ha provato a gestire contemporaneamente la facoltà di medicina e il rugby, ma alla fine ha scelto di dedicarsi totalmente alla carriera sportiva. Ha esordito nel 1998, ma ufficialmente e da titolare è in Nazionale nel 2000. Oggi gioca in Francia, nel club Racing-Metro Paris: «Mi disturba notare come molti francesi abbiano ancora pregiudizi su noi italiani. Sembriamo, ai loro occhi, approssimativi in tutto». L’addio l’ha già previsto, sul campo francese, nella stagione 2012/2013: «Ma sogno di salutare definitivamente il rugby in maglia azzurra: spero di essere ancora convocato e finire la carriera davanti al pubblico italiano».
Cosa ti mancherà?
«Lo stare in squadra. Noi viviamo fortemente il gruppo, per noi è come una famiglia. Si crea un grande legame».
Il rugby è uno sport molto fisico: ti ha lasciato molti segni?
«In testa, 52 punti, di cui 21 solo a un orecchio. Sei dita rotte. Quattro costole. Spalle lussate a volontà e una clavicola fratturata. Distorsioni varie alle gambe. Un collaterale rotto e una sublussazione del ginocchio. Ma per nessuno di questi infortuni sono rimasto fermo. Però sono appena uscito dall’ospedale, dopo aver finito la stagione ho deciso di operarmi al gomito. E ho aggiunto alla lista altri 80 punti».
Diciamo la verità: la scelta di abbandonare il rugby per l’onoterapia è una provocazione.
«Niente affatto. Intendo fare l’agricoltore. Per la precisione, voglio produrre latte d’asina. È utile ai bambini anche per combattere allergie e intolleranze alimentari. E poi adoro l’asino. È un animale che di solito è sfruttato. Invece è utile, non solo attraverso il lavoro duro, come siamo abituati a immaginarlo. E darà una mano anche a me».
Ma perché gli asini prenderanno il posto, nella tua vita, del rugby?
«La prima causa è l’età. Poi gli infortuni, che sono diventati tanti. E la delusione. Per la scorrettezza di chi circonda gli sportivi».
A chi ti riferisci?
«Non mi piace molto parlare degli aspetti negativi del rugby: fortunatamente, per il momento si tratta di casi isolati. E poi la stampa a volte ci penalizza, giungendo a facili generalizzazioni su uno sport che non conosce. Chissà, forse conosce troppo bene e tutela il calcio a costo di nascondere la verità o, anche solo di ignorarla...».
Una cosa di cui si parla poco è quel “male” che accompagna molti campioni: la depressione.
«Sì, io ci sono passato. Sono caduto in depressione. Giocavo a Tolosa, una squadra importante. Sono stato tradito da chi mi era più vicino, e gestiva la mia attività sportiva. Questo mi ha distrutto moralmente: da lì ho accumulato varie preoccupazioni. Ho disperso le mie energie. Allora ho scelto uno psicoterapeuta che non sapeva chi fossi, per staccarmi dal mio ambiente. Ho messo ordine nella confusione. Ne sono uscito. E oggi sono un uomo sereno. Riflessivo. Non ansioso. Noi professionisti abbiamo addosso una pressione forte: non possiamo deludere nessuno: i tifosi, la famiglia, la compagna. Ma non possiamo affrontare sempre tutto fingendoci superuomini».
Eppure in Italia il rugby è meno seguito del calcio, ha meno pressioni: perché?
«Per un fattore culturale. Ha alle spalle tanta storia quanto il calcio: ma è uno sport molto duro, e forse gli italiani non sono più abituati alla fatica».
Ci si arricchisce?
«No. Se sei fortunato ti puoi comprare una casa, come la mia».
In questo periodo il calcio è colpito dallo scandalo delle scommesse. È un fenomeno presente anche nel rugby?
«Nel rugby si scommette, ma non come nel calcio. Non penso che si arriverà mai a una situazione simile, a una rugbypoli. Secondo me è impossibile perché lede i principi del mio sport, soprattutto da un punto di vista culturale. Nel nostro campo ci sono regole che tutti condividono. Chi non le rispetta viene squalificato, emarginato in maniera molto diretta. Levare una mela marcia dalla cesta sarebbe molto più semplice che negli altri ambiti. Sbagli? Sei fuori».
Parlavi della delusione da parte di persone legate al tuo entourage. Da chi deve difendersi uno sportivo?
«Un problema è legato alla figura dei procuratori: a volte hanno come obiettivo principale quello di creare un personaggio su misura per il giocatore che rappresentano. Ma questa è una rovina per lo sport. Tutti noi siamo consapevoli che, dopo qualche anno dalla fine dell’attività, non si è più nessuno. Il procuratore dovrebbe solo preoccuparsi del contratto, e lasciare al giocatore la gestione della sua visibilità. Io ora non ho un procuratore proprio perché hanno provato a stravolgere la mia identità. Forse avrei guadagnato qualcosa di più, nel breve periodo, ma poi mi sarei perso...».
Un altro problema del calcio è l’omofobia. Voi ne risentite?
«L’omofobia esiste ovunque. Probabilmente anche nel rugby, ma alla filosofia del rugby non appartiene nessun razzismo. Quindi sono tutti i benvenuti: gay & company».
Eppure ammetterai che è sempre stato considerato uno sport molto virile…
«In qualche squadra, pur essendo uno sport “virile”, come dici tu, capita che giochino gay dichiarati. La virilità e l’omosessualità non sono concetti opposti».
La delusione che provano in molti dopo il calcioscommesse, anche se gli europei stanno distraendo dalle polemiche, potrebbe portare più appassionati al rugby?
«Lo spero. Tutte le mamme dovrebbero far provare il rugby ai propri figli. Perché li aiuterà, li renderà forti, intelligenti, positivi, simpatici, rispettosi delle regole e degli avversari».
Sei testimonial Unicef, alleverai asini, promuovi un’etica positiva. A vederti giocare in campo, però, così mite non sembri…
«Si pensa che ci sia sempre un altro aspetto nascosto. Un lato oscuro o aggressivo, visto che gioco a rugby: ma è un luogo comune. Sono come mi vedete. Non tradisco. Proprio come un asino».