Mitch Winehouse, Sette 29/6/2012, 29 giugno 2012
C’ERA UNA VOLTA UNA BIMBA DI NOME AMY
A poco meno di un mese dal primo anniversario della scomparsa della cantautrice londinese Amy Winehouse, esce il libro Amy, mia figlia, di Mitch Winehouse. Tutto comincia con la nascita di una bambina, seconda figlia dopo un maschio, in una famiglia ebraica che vive nella periferia nord di Londra, il papà tassista, la mamma infermiera. Tutto finisce, dopo due divorzi (quello dei genitori e quello di Amy), un grande successo, molti premi e numerosi ricoveri in “rehab”, con una drammatica morte per overdose di alcol, il 23 luglio dell’anno scorso. Ecco alcuni tra i passi più toccanti del libro che vi offriamo in esclusiva.
I sogni di una ragazzina. Ormai Amy aveva dodici anni e voleva frequentare una scuola di recitazione a tempo pieno. Janis e io eravamo contrari, ma Amy fece domanda senza dircelo alla Sylvia Young Theatre School nel centro di Londra. Non riuscimmo neppure a capire come ne fosse venuta a conoscenza, dato che la pubblicità della scuola appariva solo su The Stage. Amy ci diede infine la notizia quando fu invitata all’audizione. Decise di cantare The Sunny Side of the Street, e dopo averla studiata sotto la mia supervisione, imparando a controllare il respiro, vinse una borsa di studio parziale, non solo per il canto ma anche per la recitazione e il ballo. Il suo successo fu menzionato su The Stage, con una sua foto sopra il trafiletto.
Insieme alla domanda d’iscrizione, le era stato chiesto di scrivere qualcosa su di sé. Ecco cosa scrisse:
«In tutta la mia vita sono sempre stata chiassosa, al punto che spesso mi è stato detto di tacere. L’unica ragione per cui sono stata costretta a essere così chiassosa è che per farsi sentire nella mia famiglia bisogna urlare. Nella mia famiglia? Sì, avete sentito bene. Il lato di mia madre è perfettamente a posto, la stravaganza musicale di mattoidi che ballano e cantano è della famiglia di mio padre. Mi hanno detto che ho il dono di una bella voce e credo che la colpa sia di papà. Anche se a differenza di mio padre, e dei suoi genitori e antenati, voglio far qualcosa con il talento da cui sono stata “benedetta”. Mio padre si accontenta di cantare a squarciagola nel suo ufficio e di vendere finestre. Mia madre, invece, è farmacista. È silenziosa, riservata. Direi che la mia vita scolastica e le mie pagelle sono piene di “potrebbe fare meglio” e “non sfrutta tutto il suo potenziale”. Voglio andare in una scuola che mi porti fino ai miei limiti, e magari anche oltre. Voglio cantare a lezione senza che mi dicano di tacere (a condizione che siano lezioni di canto). Ma più di ogni altra cosa sogno di diventare molto famosa. Di lavorare sul palco. È un’ambizione che ho sempre avuto. Voglio che la gente senta la mia voce e dimentichi per cinque minuti i suoi problemi. Voglio esser ricordata come attrice e cantante, per il tutto esaurito ai miei concerti e ai miei spettacoli al West End e a Broadway».
Belli&dannati. Il tour partì sotto cattivi auspici ancor prima che Amy e Blake (Fielder-Civil, il marito, ndr) avessero lasciato Londra. Il mattino di domenica 14 ottobre (2007, ndr) Raye andò all’appartamento di Amy e Blake per portarli in aeroporto, ma quando arrivò li trovò fatti e in condizioni terribili. Non riuscì a tirarli fuori dall’appartamento, e così persero il volo e la band partì senza di loro. Fortunatamente riuscirono a trovare un aereo per Berlino qualche ora più tardi, e il primo concerto, che si tenne la sera dopo, a detta di tutti andò molto bene.
Il secondo concerto, ad Amburgo, andò altrettanto bene, ma avrei dovuto sapere che tutto questo era troppo bello per durare. La sera dopo ricevetti una telefonata molto diversa da Raye. Amy e Blake erano stati arrestati a Bergen, in Norvegia. Avevano fumato dell’erba nella suite di Amy, e un agente del servizio di sicurezza ne aveva sentito l’odore e aveva chiamato la polizia.
Preparai immediatamente la valigia e presi un volo per la Norvegia. La prima cosa che vidi al mio arrivo fu la faccia di Amy sulla prima pagina di quasi tutti i quotidiani locali. Lei e Blake avevano passato la notte in carcere e, dopo essersi dichiarati colpevoli di possesso di marijuana e aver pagato una multa di circa 350 sterline, erano stati rilasciati.
Lacrime amare. Dopo aver visto Blake in prigione il giorno prima (nel novembre 2007 Blake venne arrestato per un pestaggio avvenuto più di un anno prima, ndr), Amy era in condizioni pietose: aveva l’aria di aver dormito poco e male, e pianto molto. Però si sforzò di riprendersi e insistette per fare comunque il tour. Quando Raye mi chiese di accompagnarla al concerto di Birmingham, ci riflettei a lungo. Avevo la sensazione che sarebbe andato male, e non volevo vederlo – sapevo che mi avrebbe turbato. Alla fine misi da parte i miei presentimenti e accettai di andare. Sul tour bus, Amy sembrava a posto, a parte il fatto che non la smetteva di parlare di Blake. A giudicare dal suo comportamento, non pareva avesse assunto droghe, e non bevette nulla durante il viaggio, così tutto cominciò nel migliore dei modi. Raye aveva riempito il bus di amici di Amy per tirarle su il morale, e notai quanto fosse diversa l’atmosfera senza Blake. Prima del concerto andai nel camerino di Amy ad augurarle buona fortuna, e sembrava stesse bene, a parte il consueto nervosismo pre-esibizione. Nonostante i trionfi dell’ultimo anno, non aveva ancora superato la paura di trovarsi sotto i riflettori. Mezz’ora dopo, quando salì sul palco, era tutt’altra storia. Farfugliava i testi delle canzoni e si aggirava barcollando sul palco. Era certamente ubriaca, e il pubblico non apprezzò.
Foto stupefacenti. Il mattino dopo arrivò una notizia bomba da Raye. Il Sun gli aveva detto di avere fotografie e video di Amy che assumeva stupefacenti. Per quanto questo fosse sconvolgente, mi sforzai di mantenere la calma: non era che un’ulteriore conferma di ciò che tutti sapevano. Il giorno in cui avevamo fissato l’appuntamento per l’esame tossicologico (il 22 gennaio 2008, ndr) il Sun pubblicò l’articolo, corredato da fotografie di Amy che sembrava fumare crack. Come se non bastasse, il video era stato realizzato da due amici di Blake che l’avevano venduto al Sun. Mi aspettavo che Amy fosse mortificata, ma contro ogni evidenza, continuava a pensare che non fosse stata una trappola, e disse: «Chi se ne frega? Tutti pensano comunque che mi drogo, papà». Dopo la pubblicazione dell’articolo, fui sommerso dalle chiamate della stampa. Naturalmente volevo proteggere Amy, e dissi che adesso era in terapia ed eravamo tutti molto orgogliosi dei suoi progressi.
Paura da morire. Da almeno un anno sapevo che la riabilitazione di Amy non sarebbe stata facile, ma prima del collasso aveva attraversato un periodo così buono che mi ero lasciato cullare da un fuorviante senso di sicurezza. Questa diagnosi mi riportò brutalmente con i piedi per terra. Temevo, credo, che un giorno avrei dovuto affrontare l’epilogo più drammatico della dipendenza di Amy; avevo provato a far finta che non sarebbe potuto accadere, che non avevo bisogno di prendere in considerazione una simile possibilità, ma mi sbagliavo. Amy avrebbe potuto morire per abuso di droghe e tutto ciò che un padre può desiderare per la propria figlia avrebbe potuto finire con me in lacrime al capezzale di un letto d’ospedale. A peggiorare la situazione c’era Blake che non mi dava tregua: continuava a chiamare e a mandare messaggi ininterrottamente. «Sento di essere fuori dal cerchio familiare», diceva un messaggio. «Peggio per te!» risposi. Ero allo stremo delle mie forze. Amy dormì tranquillamente quella notte (tra il 16 e il 17 giugno 2008, ndr) e io ritornai in ospedale alle sette e mezza del mattino dopo. Alle tre incontrammo insieme la dottoressa Romete e il dottor Glynne. Entrambi furono molto diretti: se avesse continuato con lo stile di vita attuale per un altro mese, sarebbe morta. (...) Amy era molto spaventata. Le sue mani tremavano quando strinsero le mie – non l’avevo mai vista così terrorizzata. Ci assicurò che aveva smesso definitivamente con le droghe. La questione però non era così semplice.
Felicità prima del buio. Il giorno dopo (11 luglio 2011, ndr) Amy telefonò per dire che sarebbe andata in un bar a giocare a biliardo. Mi preoccupai: per Amy andare a giocare a biliardo in un bar era sinonimo di bere. Telefonai immediatamente a Andrew, la guardia del corpo, e gli dissi di avvertirmi non appena Amy avesse bevuto un drink. Ma non chiamò. Non ce ne fu bisogno. Nel momento in cui erano arrivati al bar, Amy si era diretta al bancone e aveva detto al proprietario: «Non mi venda alcol in nessuna circostanza». Quella sera scrissi sul mio diario: «Sono veramente orgoglioso di Amy. Questo è molto positivo».
Il 14 luglio passammo di nuovo la giornata insieme. Amy aveva fatto un po’ di ricerche in Internet e aveva trovato alcuni remix dance di Please Be Kind, una delle canzoni del mio album. Li ascoltammo insieme – Amy pensava che fossero piuttosto belli – e scherzando disse: «Sai una cosa, pa’? Le porterò con me la prossima volta che farò un DJ set e prima che tu te ne renda conto sarai il numero uno delle classifiche dance». «Cosa? Hai intenzione di farlo regolarmente allora? Spero che almeno ti paghino», scherzai.
«Oh, stai zitto! Adoro farlo, papà. Ho l’impressione di poter fare qualsiasi cosa qui a Camden (la sua casa di Londra, ndr). È come il mio parco giochi. Ma quando ne ho avuto abbastanza posso tornare a casa dove tutto è silenzioso e tranquillo e io mi sento al sicuro». Il 22 luglio sarei andato a New York per alcuni concerti così il giorno prima di partire andai a Camden Square per salutare Amy – fu quando mi mostrò le foto che aveva trovato. Mi disse che sarebbe andata a vedere Dionne (cantare all’iTunes Festival al Roundhouse di Camden quella sera); le dissi di augurare buona fortuna a Dionne da parte mia. Quando parlammo il giorno dopo, mi disse di essersi divertita al Roundhouse: Dionne (Bromfield, la sua “figlioccia blues”, ndr) l’aveva invitata sul palco e lei aveva ballato mentre Dionne cantava.
Purtroppo, quella fu la sua ultima apparizione pubblica. Sabato 23 luglio 2011 la mia adorata figlia Amy morì.
Mitch Winehouse