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 2012  giugno 29 Venerdì calendario

A CAVALLO PER SCORDARE LA GUERRA


L’ippoterapia va bene, ma qui, a Dinnet, villaggio sperso nel nord della Scozia, si tratta di risalire la china della vita a dorso di cavallo. Spesso senza l’uso delle gambe, a volte proprio senza gambe e, quasi sempre, con teste nelle quali continuano a risuonare raffiche di mitra e detonazioni di bombe. Ricordi che non si cancellano: soprattutto se le ferite oltre che nella mente sono rimaste impresse nel corpo. Qui, in una campagna verde e selvaggia, si ritrovano soldati con la guerra alle spalle e il nulla di fronte.
La fattoria di Jock Hutchison ricorda un po’ le atmosfere di un ranch del Wyoming: oltre il recinto dei cavalli si apre il panorama delle Highlands: laghi, brughiere e castelli da fiaba. Lui è ex pilota elicotterista della Royal Marine, 50 anni, che ha deciso di usare i 13 ettari di terreno davanti casa per farne la sede dell’organizzazione HorseBack Uk per aiutare chi ha fatto la guerra e ora non è capace di vivere in pace. Chi ha marciato, sparato, ucciso e ora fatica a sopravvivere a una “vita da civile”. La chiamano “civvy street”: a molti di loro fa più paura della guerra. Oltre che sui volti che si incrociano nella fattoria di Jock è quello che emerge da una ricerca della University of Manchester: tra i 233.803 militari che hanno lasciato le Forze Armate Britanniche, dal 1996 al 2005, ci sono stati 224 casi di suicidi. Dati del Ministero della Difesa mostrano che il 3% dei detenuti nelle carceri britanniche è un ex soldato (circa 2.500 uomini), segno di un disadattamento e di una società che non riesce a integrarli. I reduci che arrivano a HorseBack (a oggi 456) per starci due settimane o qualche mese, sono passati da Irlanda del Nord, Guerra del Golfo e Afghanistan; operazioni militari che portano nomi in codice come Banner, Safe Haven, Condor che hanno restituito reduci con depressione da Ptsd (disturbi post traumatici da stress), arti amputati e anime ferite di chi, prima eroe della Union Jack, adesso non trova più il ritmo della vita. «La natura ti ridà serenità, fiducia, una sensazione di libertà. E soprattutto vita lenta, lontano dalle città frenetiche. Perché se hai perso le gambe su una granata non sei più veloce, intralci solo chi deve arrivare al lavoro», dice Hutchison. Faccia ruvida mezza nascosta da un vecchio cappello Stetson di castoro, sarcasmo tagliente di chi ne ha viste tante: «Ero un ventenne annoiato e mi sono arruolato nell’esercito… Bosnia, Kurdistan, poi a 33 anni ho mollato. Volevo realizzare qualcosa di più costruttivo». Gli è bastato mettere in pratica ciò che aveva imparato durante un’esperienza nel North Carolina: fare il mandriano. Sull’home page del sito della HorseBack troneggia una frase di Churchill: «Quello che sta attorno a un cavallo fa bene a quello che si trova dentro a un uomo». Spiega Hutchison: «Monta alla Western su cavalloni da lavoro razza Quarter, docili, facili da manovrare. Non servono due mani per cavalcarli. Che importa se sei su una sedia a rotelle? Quando sali sopra un cavallo sei tu che diventi più alto di chi sta in piedi su due gambe». Poco distante, c’è un omone vestito da cowboy, è uno dei due addestratori specializzati nella tecnica Western, arrivati dagli Stati Uniti come volontari: «A un cavallo non importa se sei arrabbiato col mondo perché hai passato gli ultimi sei mesi nel letto di un ospedale», spiega Robert Gonzales, 48 anni, col suo forte accento californiano, «i cavalli odiano solo l’ansia di chi gli sta sopra. Ci vuole un attimo a trasmettere loro tranquillità», aggiunge Gonzales mentre osserva un uomo che cammina lentamente di fianco a un American Quarter. Niente redini, «se riesci a farti seguire senza briglie, vuol dire che hai conquistato la sua fiducia» e niente sella, «il contatto fra i due corpi ti fa diventare una cosa sola, come facevano i nativi americani», dice Vincent Manley, 42 anni. Ex caporalmaggiore del 42° commando dei Royal Marines, Manley è stato in Sierra Leone e Iraq. Nel 2005 ha lasciato l’esercito per lavorare in una delle tante società private di sicurezza che operano nei Paesi in guerra. Poi l’incidente a Diwaniyah, sud di Baghdad, che gli ha annientato entrambe le gambe quando il veicolo su cui viaggiava è finito su un Improvised Explosive Device. È un tipo di ordigno che i guerriglieri costruiscono artigianalmente e che, dall’inizio della guerra in Afghanistan nel 2001, ha già ucciso 222 soldati britannici, più della metà dei 419 che la Gran Bretagna ha perso in quel Paese, e che continua a perdere. «Ero seduto sull’auto davanti, facevo da navigatore, poi l’esplosione. Ho guardato in basso e la gamba destra non c’era più. L’altra me l’hanno amputata in ospedale qualche giorno dopo», dice a voce bassa Manley. Nella sua vita precedente nel tempo libero si arrampicava sui ghiacciai a 2.600 metri, ora ha due gambe artificiali e ha imparato a usare i muscoli in modo diverso. Cinque mesi fa, HorseBack gli ha offerto un lavoro per occuparsi dei cavalli, e la sua vita ha cominciato a riprendere un senso: «Voglio aiutare quelli come me. Tra soldati si rimane legati a vita».
Intanto, su una collina accanto alla fattoria, un gruppo di veterani tenta di accendere un fuoco con coltello, pietra focaia e dei rami perennemente bagnati dal clima scozzese. È una delle lezioni di bushcraft (corso di sopravvivenza) che tiene Buster Brown, 33 anni, ex marine in Afghanistan nella Royal Navy: «Da questa brace dipende la nostra cena, se vogliamo mangiare dobbiamo riuscire ad accenderlo», dice indicando i pezzi crudi d’agnello che aspettano d’essere cotti in una buca coperta dal muschio, e precisa: «È un’antica tecnica gaelica». Ian Stevenson è il primo del gruppo a far uscire dal legno zuppo di pioggia una piccola scintilla. Scozzese, 53 anni, è entrato nei Royal Engineers a 15 anni: «Un boy soldier. Dalle mie parti, negli anni Settanta c’erano solo due datori di lavoro: le miniere e il porto, a me non andava nessuna delle due. Mi hanno mandato subito in Irlanda del Nord, ma non ho retto molto. Bevevo, facevo a botte e mi hanno sbattuto fuori dall’esercito», racconta Stevenson, che ha smesso da poco d’essere tormentato dai flashback: «Visualizzavo immagini di episodi violenti che avevo visto a Belfast. Mi dicevo “è normale, sei stato soldato, cos’altro vorresti sognare?”». Passare un po’ di tempo a HorseBack però gli ha fatto bene. Anche i sogni hanno cominciato a essere diversi: «Ieri con il gruppo siamo stati al River Dee a pescare salmoni. È stato fantastico, altro che stare immobili su un seggiolino aspettando che la lenza tiri. Con i salmoni è una battaglia uno contro uno, devi seguire i loro spostamenti e la corrente».
Uno dei veterani con cui Stevenson ha fatto amicizia in questi giorni è Norman McGuire, 40 anni, ex carrista nei Royal Corps of Transport, dove si è arruolato a 17 anni: «Quando ho indossato per la prima volta la divisa, dopo 16 settimane di training nella base militare di Catterick Garrison, ero orgoglioso, sentivo di aver finalmente concluso qualcosa». La sua missione più importante è arrivata con lo scoppio della prima Guerra del Golfo: «All’aeroporto iracheno c’erano due double-decker rossi come quelli londinesi. Siamo saliti per andare al porto ad aspettare le navi che trasportavano i carri armati. Ho trovato la scena ridicola». Di altri momenti per sorridere non ce ne sono più stati però: «Centinaia di esercitazioni nel mezzo del nulla del deserto a 40 gradi». La carriera militare di McGuire si è conclusa quando nel 1996, durante un training in Canada, ha aggredito un sergente. I primi sintomi di Ptsd si facevano sentire, ma ha dovuto aspettare 13 anni prima di capire cosa fosse: «Nemmeno mia moglie mi è stata vicina. Mi ha lasciato, ha ottenuto anche un mandato dalla Corte per non farmi più vedere le mie figlie, sembrava avesse paura di me. Ora ho un lavoro, una nuova compagna, anche se è una lotta andare avanti ogni giorno. Venire in questo posto, stare con altri ex soldati, mi ha fatto sentire di nuovo a casa». Mentalmente e fisicamente idoneo a una nuova vita, questa volta civile.