Sergio Rizzo, Sette 29/6/2012, 29 giugno 2012
PATRIMONIO PUBBLICO, AFFARE PER PRIVATI
Nella speranza che questa sia finalmente la volta buona, mercoledì 4 luglio c’è una nuova gara. L’Agenzia del Demanio ha messo in vendita l’ex convento delle Carmelitane Scalze a Bologna, un chilometro in linea d’aria da piazza Maggiore. Perché un simile gioiello di grande valore storico artistico, con tanto di chiesa interna e cripta, fosse diventata una caserma destinata a ospitare gli atleti del corpo speciale militare sportivo, adesso è inutile chiederselo. Ha senso, piuttosto, un’altra domanda: perché le “ripetute procedure a evidenza pubblica” già fatte negli anni scorsi, sono “rimaste infruttuose”, come scrive il Demanio nel nuovo avviso d’asta? Forse per il prezzo, sceso adesso a 9 milioni 980 mila, per 2.000 euro al metro quadrato, cifra comunque inferiore di almeno il 50% alle quotazioni della zona? Difficile credere che questo possa essere il motivo.
Come non può esserlo per l’ex birreria della caserma Mameli, sempre a Bologna. Pure quella il Demanio avrebbe voluto vendere: ci ha provato due volte, inutilmente. Finché qualche mese fa sono arrivate due offerte. La più alta: mezzo milione. Ottocentodiciannove euro al metro quadrato.
Una sola cosa è certa. Di questo passo, chi pensa di abbattere il nostro enorme debito pubblico vendendo il patrimonio immobiliare, si illude davvero. Anche perché ci provano, senza costrutto, da almeno vent’anni. Risale al 1992 il primo elenco di beni demaniali messi in vendita. Una lista sterminata che comprendeva 114 caserme, la casa del fascio di Salò, campi di volo, spiagge, perfino un borgo terremotato dalle parti di Sanremo. Risultati? Chi li ha visti…
Nessun assalto alle caserme. Sulle caserme, poi, c’è sempre stata una maledizione. Nessuno è mai riuscito a venderle. E quando è successo gli effetti sono stati disastrosi. Prendiamo il caso della caserma Miale di Foggia. Tre piani, 17.625 metri quadrati, comprata grazie alla cartolarizzazione da un fondo di proprietà di Bnp Paribas nel 2005 a un prezzo di 11 milioni: 624 euro al metro quadrato. Un colpaccio, per la banca francese. Un po’ meno per lo Stato, anche perché ha dovuto riaffittare la caserma. Dentro c’era la scuola di Polizia. Canone annuo: un milione 160 mila euro, che moltiplicato per i diciotto anni di contratto fa quasi 21 milioni. Ossia, quasi il doppio di quanto incassato per la vendita. E non è finita qui, perché dopo due anni il ministero dell’Interno ha deciso che quei locali non servivano più. La caserma è stata quindi svuotata, ma l’affitto ha continuato a correre. Adesso la vorrebbe comprare l’Università statale, con 16 milioni e mezzo di fondi Fas. Lo Stato ne ritornerebbe quindi in possesso dopo aver speso, fra prezzo di riacquisto e canoni già pagati, la bellezza di 23 milioni e mezzo, contro gli 11 incassati per la vendita. Che razza di affare!
Certo, nello sterminato patrimonio immobiliare pubblico non ci sono soltanto caserme. Per dirne una, il ministero dell’Interno è ancora proprietario di circa 750 chiese, eredità degli espropri seguiti all’Unità d’Italia e precedenti il Concordato del 1929. I beni statali sono così tanti che anche il valore complessivo, per forza di cose, non può che essere aleatorio. Anche se un anno fa l’economista Edoardo Reviglio aveva calcolato l’attivo dello Stato in 1.815 miliardi di euro, cifra paragonabile al debito pubblico. Decisamente inferiore, tuttavia, era il valore del patrimonio “fruttifero”, pari a 675 miliardi.
E “fruttifero” è una parola grossa, considerando le difficoltà tecniche e politiche che ostacolano le cessioni. Qualche volta ci sono le rivolte delle comunità locali, com’è accaduto quando è stata ventilata la vendita dell’isolotto di Santo Stefano davanti a Ventotene, dove ci sono i resti del carcere nel quale furono rinchiusi durante il fascismo Sandro Pertini, Umberto Terracini, Lelio Basso, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi… Per non parlare delle resistenze delle amministrazioni. L’ex ministro Vincenzo Visco ricordò una dozzina d’anni fa come la Difesa fosse abilissima nel mettere i bastoni fra le ruote alle Finanze ogni volta che si voleva vendere una caserma.
Soprattutto, però, l’esperienza insegna che le dismissioni degli immobili pubblici hanno fatto la fortuna soltanto di chi ha comprato. Impossibile non ricordare le vicende delle case dell’Inps vista Colosseo acquistate da illustri inquilini per un pezzo di pane. E non si può nemmeno dimenticare la meravigliosa stagione delle cartolarizzazioni, della finanza creativa, dei fondi immobiliari. Meravigliosa, ovviamente, per banchieri e finanziari che si sono riempiti le tasche con i compensi di intermediazione. Era l’epoca delle Scip, le “Società cartolarizzazione immobili pubblici” per mettere sul mercato il mattone di Stato. Società del Tesoro italiano ma di diritto olandese (olandese?!) e, come ha ricordato l’Espresso, “con un cittadino scozzese di nome Gordon Burrows alla presidenza”. Micidiale il verdetto della Corte dei conti su quella operazione, emesso sei anni orsono. Dei 129,2 miliardi di euro di immobili trasferiti alle Scip e a un Fondo immobili pubblici di cui parleremo più avanti, il ricavo totale non aveva raggiunto in sette anni che il 44,7% di quella cifra, con effetti sul debito pubblico per circa un punto di Prodotto interno lordo. Una miseria ottenuta tra l’altro, denunciavano i giudici contabili, “con scarsa trasparenza”. La Corte puntò il dito sulle vendite di appartamenti a inquilini privilegiati, che avevano ottenuto lo sconto previsto dalla legge senza che fosse stato accertato “il livello reddituale o patrimoniale del beneficiario”.
Sono successe, diciamo la verità, cose turche. Come a Oristano, dove otto anni fa l’Inpdap, l’ente di previdenza degli statali confluito nell’Inps ha venduto nel 2004 un palazzo a un gruppo imprenditoriale campano per la modica cifra di tre milioni. Salvo poi accorgersi, una volta firmato il contratto dal notaio, che le particelle catastali cedute comprendevano altri due immobili. Per la serie prendi tre, paghi uno: la Corte dei conti sostiene che i contribuenti italiani hanno subito un danno di oltre 16 milioni. Indovinate com’è finita la causa intentata dall’Inpdap per riparare all’incredibile errore (se di errore si è trattato)? L’ente ha vinto in primo grado, mentre il giudice d’appello nel novembre scorso ha sospeso la restituzione degli immobili in attesa della sentenza di merito. Prima udienza fissata a settembre del 2016. Dopo cinque anni. Tanto per dire i rischi che si corrono quando si vende a cuor leggero…
Questo, naturalmente, non significa che lo Stato non debba vendere. Ma che lo faccia seriamente, ricordandosi che è roba dei contribuenti. E va ceduta a prezzi giusti, di mercato. Senza camarille di finanza creativa che a tutto servono tranne che a raggiungere l’obiettivo.
Sedi storiche. È lecito interrogarsi, per esempio, sull’utilità di una operazione come quella del Fondo immobili pubblici. Di che cosa si tratta? È un fondo immobiliare costituito dallo Stato, dentro al quale sono stati infilati moltissimi immobili di pregio, in prevalenza degli enti previdenziali. Per fare un esempio, ci sono le sedi storiche Inps di Venezia e Firenze, e anche quella di Roma, in piazza Augusto Imperatore. Sono palazzi comprati con i denari dei lavoratori, il che non è certamente un dettaglio. Quel fondo pubblico è diventato dunque proprietario degli immobili degli enti previdenziali, i quali si sono trasformati da padroni in affittuari e pagano canoni profumati. Direte: ma è una partita di giro. Verissimo. Però con un particolare. Il Fip, che ha il compito di “valorizzare” e vendere se possibile quelle proprietà immobiliari statali, è gestito da una società privata. Si chiama “Investire immobiliare” ed è controllata dalla famiglia Nattino in società con la famiglia Benetton. E grazie alla gestione del Fip fa una montagna di soldi.
Dal 2002 al 2011 ha accumulato utili netti generati dalle commissioni per 59 milioni e 320 mila euro. Soltanto lo scorso anno, particolarmente fiacco per il mercato immobiliare, la società di Nattino-Benetton ha piazzato 34 immobili per un introito di 195 milioni. Circostanza che ha garantito, c’è scritto nel bilancio, “commissioni nette per 3,5 milioni”. Complimenti. Soltanto una domanda a chi dieci anni fa (premier era Silvio Berlusconi e ministro dell’Economia Giulio Tremonti) ha avuto questa bella pensata: era proprio necessario rivolgersi a un intermediario privato per gestire un fondo degli immobili pubblici? Nello sconfinato panorama delle società statali, dove abbondano anche finanziarie e immobiliari, davvero non ce n’era nemmeno una alla quale affidare l’incarico? Del resto, erano gli stessi anni in cui la Consip, la società che ha il compito di limitare gli sprechi delle pubbliche amministrazioni centralizzando gli acquisti dei beni e servizi, stipulava un bel contratto d’affitto. Quello di uno stabile di 3.600 metri quadrati a Roma di proprietà della tedesca Deka: oggi paga d’affitto 2,3 milioni più Iva l’anno. Cioè 638 euro al metro quadrato al netto dell’imposta. Circa cento euro in più rispetto al canone che l’immobiliarista Sergio Scarpellini incassa dalla Camera per i famosi palazzi Marini che ospitano gli uffici dei deputati. Possibile che in tutta Roma non ci fosse un immobile di proprietà pubblica per metterci dentro la società che deve farci risparmiare?
Eppure uno Stato che volesse utilizzare meglio il proprio immenso patrimonio non potrebbe che partire da qua. Imponendo che gli uffici e le società pubbliche non paghino affitti ai privati, limitandosi a occupare immobili demaniali. Intanto si risparmierebbero un sacco di soldi, e non è male. Ci credereste? A quanto pare nemmeno il ministro Piero Giarda è riuscito a scoprire quanti miliardi le pubbliche amministrazioni regalano ai privati per gli affitti.