Gian Antonio Stella, Sette 29/6/2012, 29 giugno 2012
IL SENSO DEL SINDACO PER LE POLTRONE
Resistere, resistere, resistere. Il sindaco di Messina Giuseppe Buzzanca si era dato una missione che avrebbe fatto onore ai nostri soldatini sul Grappa. La differenza, non secondaria, è che lui non difendeva la patria, ma due poltrone. Con la chiappa destra sedeva su quella di sindaco di Messina, con la chiappa sinistra su quella di deputato all’Ars. E per quasi quattro anni non ha voluto saperne di schiodare dall’una o dall’altra. Sei verdetti, giudiziari e politici, avevano già chiarito: non si può essere contemporaneamente consigliere regionale e sindaco di una città con più di 20.000 abitanti. Eppure le cronache sulla Gazzetta del Sud di Francesco Celi e Lucio D’Amico raccontano un tormentone impensabile in qualunque altro posto del creato. Eletto deputato regionale a metà aprile 2008, Buzzanca riconquistò il mese dopo anche la carica di sindaco mollata nel 2005 (anche allora resistette a lungo e Berlusconi arrivò a studiare per lui una leggina «ad-Buzzancam») perché decaduto a causa di una condanna: ai tempi in cui era presidente della Provincia si era fatto portare in auto blu a Bari dove doveva imbarcarsi per il viaggio di nozze. «Scegli una delle due cariche», chiesero subito le opposizioni. Macché: niente. Unica concessione, la rinuncia allo stipendio da sindaco, più basso dell’indennità di membro dell’Ars: 11mila euro netti contro 9mila. E mentre tutti quelli nella sua stessa posizione si dimettevano dall’una o l’altra carica, lui si era impuntato: no. Spingendo gli avversari a portare la cosa nei tribunali. Da allora, il tormentone merita di essere ricostruito perché spiega l’Italia meglio di un trattato di mille pagine. Prima puntata: la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 143 dell’aprile 2010, dichiara l’incompatibilità tra la carica di deputato regionale e sindaco o assessore di Comuni con più di 20mila abitanti. E lui non si schioda. Seconda puntata: il Tribunale di Messina con la sentenza n. 2145/10 del 17 novembre 2010 conferma l’incompatibilità. E lui non si schioda. Terza puntata: la sentenza peloritana è confermata dalla Corte d’Appello di Messina con la sentenza 255/11 del 16/5/11. E lui, sostenendo che la legge gli impone di optare solo dopo una sentenza passata in giudicato, non si schioda. Quarta puntata: la Corte Costituzionale con la sentenza n.294 del novembre 2011, dichiara l’incostituzionalità della legge regionale 8/09 nella parte in cui consentiva di esercitare l’opzione dopo il passaggio della sentenza in giudicato. E lui non si schioda. Quinta puntata: il Tribunale Civile di Palermo nell’aprile 2012 dichiara Buzzanca decaduto dalla carica di deputato ma lui fa appello provocando la sospensione della sentenza. E in attesa dell’udienza fissata per il 13 luglio lui non si schioda. Parallelamente, racconta la Gazzetta, oltre all’azione giudiziaria viene «attivata con un ricorso depositato il 3 giugno 2010 anche la procedura amministrativa alla Commissione Verifica dei Poteri Regionale che ai sensi dell’art. 61, comma 4, si sarebbe dovuta pronunciare entro un anno». Solo che la Commissione si riunisce la bellezza di 18 volte senza trasmettere la relazione all’Assemblea. A quel punto l’omissione viene impugnata dall’avvocato Antonio Catalioto, acerrimo nemico del deputato-sindaco, al Tar di Palermo, che con l’ordinanza 228 del 20 aprile 2012 impone alla Commissione di trasmettere la relazione all’Aula per la votazione.
Ricorsi e omissioni. Finché finalmente, sesta puntata del polpettone, l’Assemblea dichiara l’incompatibilità di Buzzanca avvertendolo che in caso di mancata opzione entro 10 giorni decadrà dalla carica di deputato. Era il 12 giugno: dal reclamo erano trascorsi due anni. Caso chiuso? Manco per idea: il cocciutissimo sindaco ha proposto appello al Consiglio della Giustizia Amministrativa impugnando tutto di nuovo. Deciso ad andare avanti nei secoli dei secoli. Ahi ahi, sorpresa: ricorso irricevibile. E dimissioni da deputato obbligate. Che disdetta, dover cedere dopo solo sette verdetti contrari.