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 2012  luglio 03 Martedì calendario

PURE LA TASSA SULL’OMBRA: CHE CALVARIO APRIRE UN BAR


Da mesi il governo tecnico si riempie la bocca con slogan a effetto quali «semplificazione», «incentivi ai giovani», «aiuti all’imprenditoria». La realtà è che oggi, nel nostro Paese, anche solo aprire un bar è sì un’impresa, ma titanica. Tra investimento iniziale, spese correnti, utenze, imposte, tasse, contributi e burocrazia, chiunque possa essere tentato dall’avventura rinuncia all’idea. A volte, poi, l’accanimento della pressione fiscale assume i contorni di una beffa bella e buona. Come è accaduto a Viareggio, dove un ristoratore si è visto piombare nel locale due uomini dell’ufficio dogane che chiedevano di esibire il pagamento dell’Utif, acronimo di Ufficio Tecnico Finanza, ovvero la licenza sui superalcolici. Possiamo immaginare le colorite espressioni con cui l’imprenditore toscano avrà accolto il verbale dall’importo ancora ignoto, fino a notifica inviata via raccomandata. Una “dimenticanza” che gli costerà cara: da un minimo di 500 a un massimo di 30mila euro. L’imposta, ignota ai più, è destinata ai titolari di attività che producono, vendono o trasformano alcolici ed è in vigore dal 1995. Con gli anni è diventata una domanda in carta bollata che baristi e ristoratori devono inviare una tantum all’ufficio dogane competente. Ma se cedi l’attività, chi rileva la licenza deve ricordarsi di pagare nuovamente l’Utif: 65 euro in marche da bollo. Due lire, ad essere onesti. Peccato che gli esercenti, già oberati di tasse, se ne siano via via dimenticati e, con loro, anche le autorità preposte al controllo. La categoria, nemmeno a dirlo, è furibonda. Ma per capire le ragioni di tanto sgomento bisogna andare oltre l’Utif e i 65 euro. Occorre prendere carta e penna e provare a “fare il gioco dell’imprenditore” metten - do nero su bianco i costi che un esercente-tipo deve sostenere ogni anno. Prendiamo un ipotetico bar di metratura media sul lungomare di Viareggio: una zona rinomata in cui lavorare rende bene («In estate si guadagna tra i 2.500 e i 6.500 euro a giornata», ammette Silvano Pitanti, referente di Confcommercio) ma ha anche costi decisamente sostenuti. Rilevare un’attività nel salotto buono della Versilia richiede almeno 2- 300.000 euro di investimento e il solo affitto può arrivare a 10 mila euro al mese. Il personale qualificato costa: tra i 1.800 e i 2.300 euro a dipendente compresi i contributi. Poi ci sono i fornitori (a seconda che tu serva gelato o alcolici, anche 5.000 euro al mese), le utenze (300 euro al mese) e i corsi di formazione obbligatoria per i lavoratori: ogni 3-5 anni scatta l’Haccp (sostitutivo del libretto sanitario) e viene sui 300 euro; idem i corsi sulla sicurezza, antincendio e di pronto soccorso. Un tecnico abilitato, poi, deve stilare periodicamente l’impatto di valutazione rischio dei locali, e siamo sugli 800 euro; altri 1.200 vanno per redigere il piano dell’autocontrollo sulle procedure alimentari. Quindi arrivano tasse e imposte. Quella sulla spazzatura dipende da posizione e metratura, ma siamo intorno ai 2.000 euro annui, mentre su luce, energia e metano ci sono le due addizionali regionali e provinciali, toccano anche 250 euro. Poteva mancare la tassa sull’insegna? La scritta che identifica il locale, a seconda della dimensione, può arrivare a 350 euro l’anno, ma se è luminosa costa di più. E poi c’è l’imposta sull’ombra. Se la tenda da sole oscura il suolo pubblico puoi pagare anche più di 300 euro. Costi insostenibili, di fronte ai quali l’Utif resta solo l’ultima beffa. La voce del blitz viareggino si è subito diffusa in tutta la Versilia seminando il panico tra gli esercenti, ma i tanto temuti controlli a tappeto non ci sono stati. Non ancora, almeno. Il referente di Confcommercio per Massa e dintorni, intanto, conferma l’accaduto. «La sanzione c’è stata eccome» conferma Pitanti, del consiglio direttivo Fipe «ma è una cosa fuori dal mondo. Non se ne ricordavano neppure loro!». «Loro» si erano dimenticati dell’Utif dal 1995 e chi dovrebbe pagarla fa il furbetto o, almeno, ci prova. Una prima avvisaglia, però, a Confcommercio l’avevano avuta due o tre anni fa. «Erano venuti in sede degli agenti dell’ufficio dogane per chiedere se i nostri associati sapevano dell’Utif ed erano soliti pagarla» ammette Pitanti. «Ma ora questa incursione ci coglie proprio alla sprovvista». Una “novità” che sorprende ben poco: «Ormai in questo paese è tutto un battere cassa» sbotta il rappresentante di categoria. «Siamo ostaggio di un governo che invece di far ripartire l’economia tartassa gli imprenditori e ogni giorno ne inventa una nuova. I risultati si vedono: l’afflusso turistico è ridotto all’osso e i negozi chiudono a raffica ».