Martino Cervo, Libero 3/7/2012, 3 luglio 2012
CI SIAMO FABBRICATI LA CRISI A SUON DI PAROLE
La crisi l’abbiamo creata noi. Parlandone. L’infiammata degli spread dei Pigs (con una o due «i», a scelta) non è legata ai fondamentali economici, ma alla fragilità strutturale dell’Euro e dei suoi meccanismi decisionali, che espongono la periferia dell’area. La tesi è vecchia, ma ora a ribadirla con un corredo ingegnoso e accurato di «dimostrazione» è uno dei più importanti pensatori economici della London School of Economics, Paul De Grauwe. Il quale, insieme a Yuemen Li dell’università di Leuven, ha pubblicato un interessante studio che riassume le conclusioni di un incontro tenutosi in Danimarca lo scorso aprile. Il paper, segnalato nei giorni scorsi dall’analista Mario Seminerio e reperibile al sito www.cesifo. org/wp, si propone di dimostrare con un modello lineare che la crisi degli spread è un caso di profezia negativa auto-avverantesi, sganciata dai fondamentali economici dei Paesi su cui si abbatte. La strada scelta per passare dalla considerazione superficiale al dato scientifico è duplice, e a dir poco interessante. Anzitutto, come mostra il grafico in alto a destra, dopo la crisi che ha portato al crac Lehman (quindi a partire dal biennio 2007-08), l’involarsi del debito pubblico in rapporto al Pil ha una tendenza più marcata in Paesi con moneta «autonoma» che non nella media dell’area Euro. Eppure i titoli di Stato di America e Gran Bretagna, per fare due esempi evidenti, non hanno subito l’impennata di sfiducia che è toccata a quelli irlandesi, portoghesi e spagnoli, per tacere di quelli italiani. Eppure proprio Usa e Inghilterra hanno conosciuto serie impennate del rapporto debito/Pil come conseguenza del massiccio intervento pubblico per salvare le banche. E allora perché «paghiamo» così caro l’accesso al credito rispetto alla Germania, malgrado i fondamentali economici non siano così disastrosi? «L’assenza di una garanzia che i soldi saranno sempre disponibili», scrivono De Grauwe e Li, «crea fragilità nell’unione monetaria». Insomma, manca un garante di ultima istanza, ruolo che negli Stati con moneta propria è svolto dalla Banca centrale. Dunque è a questo livello di incertezza che si innesta il «sentiment» negativo dei mercati, che crea sfiducia crescente. Di fatto, i movimenti finanziari hanno così fatto da lente di ingradimento distorsiva di alcuni squilibri, sguazzando nell’incertezza. Il resto lo hanno fatto le politiche di contenimento dei bilanci: giuste, spiega il paper, ma insufficienti proprio perché toccano una sola delle cause degli spread. TESI SCIENTIFICA Ancora: la tesi è datata e ripetuta. Il punto di interesse è la scientificità. De Grauwe mostra come l’esplosione degli spread non sia legata all’aumento del rapporto debito/Pil: in pratica i Paesi che stampano la loro moneta sono perfettamente in grado di fornire garanzie ai mercati senza bisogno di correttivi fiscali, quelli dell’area Euro no. Poi gli squilibri ci sono, ma non sono questi a condizionare in maniera esclusiva gli spread. «I mercati finanziari non smaniano per imporre più disciplina ai Paesi con moneta autonoma a partire dall’inizio della crisi, mentre tendono a farlo con decisione nei Paesi deboli dell’Eurozona». Volendone cogliere un lato politico, il cuore del ragionamento è un colpo di spugna sul moralismo economico-culturale che impregna la visione tedesco-centrica che fin qui ha dominato in Europa: il rigore fiscale non è condizione primaria per fermare gli spread. Una tesi che comincia ad avere almeno un annetto buono di prove a suo favore. «Abbiamo notato un grande contrasto tra l’Eurozona e i Paesi con moneta autonoma. [...] Si evidenzia, dall’inizio della crisi, un sostanziale distacco degli spread dai valori economici fondamentali, tale da suggerire che siano diventati decisivi i movimenti temporali legati ai sentimenti del mercato». Dunque, una crisi creatasi sulle aspettative temporali dei mercati, gioco forza sganciate dai fondamentali economici e ben più legate a rumori, voci, notizie, equilibri politici: tutto ciò che gli analisti chiamano «sentiment», e che non è slegato dal pessimismo autoindotto. Per corroborare a livello scientifico questa ipotesi De Grauwe introduce la «variabile dummy», cioè appunto una variabile temporale che assorba le aspettative dei mercati dal momento che i soli fondamentali economici non creano una relazione soddisfacente con l’andamento degli spread. Il fattore in più, invece, «misura» questo squilibrio, come detto non privo di conseguenze politiche e, se vogliamo, «culturali ». «Il risultato può essere interpretato come segue. Prima della crisi i mercati non percepivano alcun rischio nei debiti sovrani dei Paesi periferici dell’area Euro. Come conseguenza hanno stimato i rischi allo stesso modo di quanto avvenuto con i rischi dei Paesi dell’area centrale. Dopo la crisi, gli spread dei Paesi periferici sono saliti drammaticamente in modo indipendente dai fondamentali osservati. Ciò suggerisce che i mercati siano stati condizionati da sentimenti negativi e abbiano sovrastimato i rischi di default. Dunque, una errata valutazione dei rischi (in ambo le direzioni) sembra essere una caratteristica endemica nell’Eurozona». RICETTA SBAGLIATA Attenzione: questo non significa che la crisi non esista: gli spread costano cari, le ricette «austere » e le tasse impoveriscono eccome, levano potere d’acquisto e devastano la ricchezza. Ma sono la ricetta sbagliata, secondo questa interpretazione. La lettura di De Grauwe è convincente, anche per chi non domina in profondità le categorie macroeconomiche: quel che stupisce è la difficoltà di questa chiave interpretativa a «bucare» una narrativa fatta di formiche e cicale, buoni e cattivi, dissipatori e rigoristi. La quale indubbiamente ha maggiori profili di spendibilità anche mediatica. La stessa che, a uno sguardo più distaccato, fa propendere per la tesi della London School of Economics: di crisi si parla troppo, e si realizza ciò che si teme. Con le chiacchiere e con le tasse.