Luca Iezzi, Affari & Finanza, La Repubblica 2/7/2012, 2 luglio 2012
IL GIAPPONE TORNA AL NUCLEARE CONTA PIÙ IL PIL DELLA PAURA
L’illusione della normalità passa da 30 chili di polipi e 40 di molluschi. L’evento celebrato in un supermercato di Soma, prefettura di Fukushima, racconta quanto è forte la voglia dei giapponesi di chiudere con quel maledetto 11 marzo 2011. Lunedì scorso si sono accalcati per comprare il primo pesce pescato al largo delle rovine del più grande incidente nucleare della storia dell’umanità, la merce è andata esaurita alle tre del pomeriggio. Solo polpi e molluschi perché il pesce vero e proprio è ancora a rischio contaminazione e anche quello messo in vendita lunedì era stato bollito per permettere due giorni in più di controlli sulle quantità di isotopi di cesio e iodio. Nel quotidiano del giapponese moderno c’è il pesce, ma ci sono anche i reattori atomici, almeno per i prossimi decenni. La prossima settimana ripartirà il reattore numero 3 di Oi (regione del Kansai) sulla costa occidentale, dopo un mese sarà riacceso anche il secondo, infrangendo il sogno dell’opinione pubblica locale di tenere per sempre l’arcipelago nuclear-free, un sogno durato poco più di due mesi: il 5 maggio l’ultima centrale nell’isola settentrionale dell’Hokkaido si è fermata per manuntezione lasciando silenziosi per la prima volta in mezzo secolo tutti e 50 i reattori nipponici. Il governo, nonostante le pressioni, non ha mai formalmente rinunciato al vantaggio delle centrali e il 16 giugno ha deciso il piano di
progressiva riaccensione. La Tepco, sotto accusa per la pessima gestione dell’impianto di Fukushima durante e dopo il terremoto, ha già annunciato di voler riattivare entro il 2013 la più grande centrale del mondo a Kashiwazaki- Kariwa a sua volta protagonista di un incidente durante un terremoto del 2007. La strada per affrancarsi dall’atomo in Giappone è lunga e costosa, tanto da rendere improbabile che i malfermi governi di Tokyo la intraprendano con forza: le stime ufficiali dicono che spegnere tutti i reattori ridurrebbe il Pil giapponese del 5% in 15 anni e sempre secondo la Tepco riaccendere i quasi 8000 Mw di Kashiwazaki-Kariwa farebbe risparmiare ai consumatori 780 milioni di euro l’anno. Dal terremoto di Fukushima le tariffe elettriche sono aumentate di oltre il 10% (l’ultimo ritocco ci sarà dal primo luglio) per effetto di un maggior uso del gas metano e dal fatto che nello stesso periodo si è passati da 20 reattori operativi a zero. Ma l’entità dei risparmi scompare di fronte al conto post-incidente: 110 miliardi di euro pagati dalle casse pubbliche per gestire e mantenere sotto controllo la zona dei quattro reattori colpiti dallo tsunami, 10 miliardi per salvare e nazionalizzare la Tepco. Un conto che continuerà a crescere anche solo considerando il fatto che intorno ai reattori di Fukushima dovrà essere mantenuta per anni una zona di esclusione totale (ora ampia 20 km) e che i lavori di messa in sicurezza dell’impianto saranno lunghissimi e pieni di insidie. Sotto le macerie dei 4 edifici colpiti dallo tsunami ristagnano migliaia di tonnellate di acqua contaminata servita a raffreddare i noccioli, acqua non totalmente contenuta come dimostrano le “bolle” di alta radioattività segnalate periodicamente nei mari antistanti la centrali. «Sappiamo di non avere la comprensione dell’intera popolazione », ha dichiarato il ministro dell’Industria Yukio Edano annunciando il piano di riaccensioni. Quello che si è rotto, persino in un paese che crede profondamente nell’importanza dell’autorità come garanzia del proprio benessere, è il patto di fiducia tra la popolazione, specie quella che vive nei dintorni delle centrali, e i rappresentanti del governo e degli organismi di controllo. I giapponesi chiedono più investimenti nelle rinnovabili (dove il Giappone spende meno di Europa, Stati Uniti e Cina), e il progressivo smantellamento degli impianti più vecchi, ma l’uscita dal nucleare, anche in tempi lunghissimi, non sembra un’opzione praticabile. Con la cicatrice Fukushima ancora ben visibile, l’industria mondiale del settore è impegnata in una vera e propria guerra di sopravvivenza. Il rischio più grave: il bando senza appello da tutte le grandi economie occidentali sembra scongiurato. A seguire l’esempio di Germania, Svizzera e Svezia che hanno deciso un’uscita graduale nel corso del prossimo decennio, ci ha pensato solo il Belgio, mentre a livello centrale l’Ue sembra decisa a rimanere neutrale anche per via della forte contrapposizione sul tema tra Francia e Germania, con i primi che sono i principali alfieri del mantenimento della presenza atomica nel Vecchio Continente. Anzi, dopo un anno di controlli giovedì scorso l’Autorità di sicurezza nucleare transalpina ha promosso tutte le centrali operanti. Compresa la contestata centrale di Fessenheim proprio al confine con Svizzera e Germania, la più vecchia del parco francese in servizio dal 1977, che il presidente Francois Hollande, durante la sua campagna elettorale, aveva promesso di far chiudere entro la fine del suo mandato. Un impianto considerato vetusto e pericoloso da numerose associazioni ambientaliste, e anche da numerosi rappresentanti degli enti locali, ma che secondo l’Autorità è ancora idoneo a operare, a patto che siano messe in atto un numero di operazioni per migliorarne la “robustezza” durante le “situazioni estreme”. La scelta nucleare torna ad essere principalmente politica, con le valutazioni tecniche e di sicurezza incapaci di fornire discriminati oggettive e indiscutibili ad ogni latitudine. Più facile affrontare la questione dal punto di vista economico e finanziario: il nucleare rimane un’opzione praticabile e conveniente per tutte quelle economie con una forte concentrazione di capitale in strutture statali e con forti prospettive di crescita economica e di domanda energetica: Brasile, Russia, Emirati Arabi, Corea del Sud, India e Cina rientrano nell’identikit. Pechino ha eliminato il blocco ai progetti nucleari arrivato subito dopo Fukushima, i piani ciclopici di raddoppiare ogni dieci anni la dotazione nucleare saranno rivisti e ridimensionati, ma più in base ai reali fabbisogni dell’economia che non delle esigenze di sicurezza. Insomma la sopravvivenza degli atomo-entusiasti è tutta affidata ai nuovi scenari dei paesi emergenti, mentre un lento e controverso crepuscolo si annuncia in occidente, concentrato sulle nuove tecnologie verdi in Europa e, nel caso dei pragmatici Stati Uniti, ormai concentrati in una rivoluzione energetica affidata allo shale gas, il metano non convenzionale, che promette altri 100 anni di benessere a idrocarburi per gli imprenditori americani. I lunghi braccio di ferro con comitati e rappresentanti politici diventano sempre meno attraenti, tanto che la realizzazione di un nuovo impianto su suolo statunitense è utopia dal lontano 1977.