Eugenio Occorsio, Affari & Finanza, La Repubblica 2/7/2012, 2 luglio 2012
PERDE LA BANCA GUADAGNA IL BANCHIERE A WALL STREET E ALLA CITY LO STIPENDIO RESTA D’ORO
Sommerse dai commenti sull’eurovertice di Bruxelles, e anche in Italia dalle vicende calcistiche, giovedì scorso sono arrivate nelle redazioni due notizie trascurate che invece fanno epoca, dalle due capitali finanziarie del mondo, Londra e New York. La prima: la Barclays è stata multata per 450 milioni di dollari, la più grossa sanzione della storia bancaria, dalle autorità inglesi e americane congiunte. Avrebbe manipolato nientemeno che il tasso Libor, su cui si basano 360 trilioni di dollari di obbligazioni in essere in tutto il pianeta, per trarre vantaggio dalle oscillazioni “pilotate” di esso. L’inchiesta, partita dall’americana Cftc (Commodity futures trading commission) e portata avanti dalla Financial services authority britannica e dal Department of Justice statunitense, si è chiusa proprio nei giorni in cui il discussissimo Ceo della Barclays, Bob Diamond, incassava gli ultimi spiccioli del maxicompenso (stipendio+bonus+ option+benefici) per l’anno scorso: l’equivalente di 20,1 milioni di dollari. Un payout sul quale infuria la polemica perché nello stesso anno di riferimento il titolo Barclays ha perso il 32,7% in Borsa. Per non parlare della composizione dello stesso emolumento: grande scandalo ha per esempio sollevato la voce “disagio fiscale” che Diamond avrebbe patito trasferendosi da New York a Londra, quantificato in 5,9 milioni di dollari. Travolto dalle proteste, Diamond ha gettato la spugna e ha detto infine che rinuncerà almeno
alla componente “bonus”. Seconda notizia. Cambio di sponda dell’Atlantico. Sempre giovedì, il Ceo della JP Morgan, Jamie Dimon, è tornato nell’occhio del ciclone perché un rapporto interno pubblicato dal New York Times ha rivelato che la perdita della banca per le famigerate operazioni sui derivati è stata di 9 miliardi di dollari, oltre quattro volte in più di quanto affermato dallo stesso Dimon durante le audizioni al Congresso sotto giuramento un mese fa. Apriti cielo. «La reputazione della banca è irrimediabilmente minata», ha sentenziato Paul Miller, analista della Fbr Capital Markets. Per non parlare di quella personale di Dimon, una volta ritenuto il più saggio e abile fra i banchieri di Wall Street. Di sicuro è il più pagato: il totale dei suoi compensi 2011 è stato di 23,1 milioni di dollari, l’11% in più dell’anno prima quando pure era un record assoluto. Il problema è che nel corso del 2011 il titolo è sceso del 21,6%. Dimon, capofila della schiera di banchieri che si oppone strenuamente a qualsiasi regolazione del mercato finanziario, risponde che però i profitti della banca sono aumentati del 9%, ma il risentimento popolare contro i lui continua a montare: se non altro perché la banca ha bruciato in Borsa 23 miliardi di valore azionario da quando la maxi-perdita è emersa. Due vicende parallele e un unico denominatore, il furore contro i maxicompensi dei banchieri, che sono sempre meno giustificabili visti i corsi attuali del mercati. Sempre la settimana scorsa, il Financial Times ha pubblicato a tutta pagina un titolone che sintetizza alla perfezione il problema: “High pay persists despite poor performance”. L’articolo riprende uno studio appena realizzato dalla Equilar, un istituto di ricerca americano la cui ragione sociale è insita nel nome, che dimostra che in media i compensi dei banchieri sono aumentati del 12% l’anno scorso mentre profitti e azioni crollavano. In media, i Ceo delle quindici maggiori banche del mondo hanno guadagnato 12,8 milioni di dollari. Quello che danneggia di più i piccoli azionisti, dice la Equilar, è l’escamotageusato per aggirare le limitazioni ai bonus, proporzionali ai risultati, imposte dalla congiuntura negativa e anche dall’outragepopolare: viene semplicemente alzato oltre ogni ragionevole misura il salario-base. È successo per esempio a Citigroup, dove il Ceo Vikram Pandit adesso prende di “stipendio” l’esorbitante somma di 14,9 milioni di dollari, più annessi e connessi, anch’egli in aumento dell’11%. Risultato, i ritratti di Pandit vengono branditi dai contestatori di Occupy Wall Street come simbolo di tutte le distorsioni del mondo della finanza. Intendiamoci: non siamo ai 70 milioni che incassò nel 2007 il Ceo della Goldman Sachs, Lloyd Blankfein, in un’epoca di vacche grasse appunto grazie al meccanismo dei bonus (anche l’anno scorso comunque non si può lamentare visto che ha incassato 16,2 milioni di dollari migliorando del 14,5% il personal income sul 2010). Ma siamo sempre su livelli che lasciano perplessi. «Quando, una trentina di anni fa, scrissi sul Corriere della Sera un articolo in cui denunciavo che un Ceo guadagnava 40 volte di più di un suo dipendente, fui sommerso da lettere e telefonate di gente scandalizzata e incredula», ha raccontato pochi giorni fa Romano Prodi, che oggi insegna all’americana Brown University e alla cinese Ceibs di Shanghai, agli studenti della summer school internazionale dell’Istituto Iseo. «Oggi il rapporto è di 1 a 400. Ma, a differenza di allora, mi sembra che ci sia, a parte qualche obiezione, una sostanziale accettazione o perlomeno una rassegnazione sui temi dell’inequality sia a livello di opinione pubblica che soprattutto di dirigenza politica. E invece si potrebbe fare molto, sia in America che in Europa, tassando in modo diverso e più progressivo questi redditi abnormi ». Non è un problema solo del mondo anglosassone. Il Financial Timesrileva con amara ironia che proprio in queste settimane in cui il sistema bancario spagnolo rischia di mandare a fondo l’intera economia planetaria, il Ceo del Santander, Alfredo Saenz, incassa un compenso totale di 16,1 milioni di dollari relativo al 2011, anno in cui l’utile netto del Banco è sceso del 14% (mentre il titolo scendeva in linea con la debacle del settore), per non dire dell’abisso in cui è precipitato nella prima parte del 2012. E in Italia? Qui siamo su livelli più ragionevoli, anche se le anomalie non mancano. «Non per accanirsi personalmente, ma che senso ha la liquidazione di 36,5 milioni corrisposta l’anno scorso da Unicredit ad Alessandro Profumo?», si chiede Sergio Carbonara, fondatore di Frontis Governance, un istituto di proxy advisory (fornisce agli azionisti strumenti e idee da far valere in assemblea) inserito nel network Ecgs (Experts Corporate Governance Service). «Bastava rispettare le raccomandazioni dell’Unione europea e del Financial Stability Board del 2009, secondo le quali la liquidazione di un Ceo non deve superare le due annualità di stipendio base, oppure le linee guida che proprio Unicredit si è dato ancora prima secondo cui non si possono superare le tre annualità. Invece si è sforato, abbiamo calcolato, per quasi trenta milioni: all’ex ad non dovevano andare più di 7,3 milioni. L’importo è il frutto di una trattativa privata fra il Ceo uscente e il consiglio d’amministrazione, e come tale inaccettabile dai piccoli azionisti». Non è l’unica operazione finita nel mirino degli watchdog: «Anche l’indennità di 4 milioni corrisposta al direttore generale dimissionario del Monte dei Paschi, Antonio Vigni, appare sproporzionata indipendentemente dalle valutazioni sulla persona ma per rispetto a degli azionisti che nel 2011 hanno perso il 65% in Borsa. Per non parlare dei 16,6 milioni versati a Cesare Geronzi dopo neanche un anno al vertice delle Generali. Non vorrei che quest’abitudine delle maxi-liquidazioni sia una pratica per compensare i capi azienda di stipendi e bonus tenuti sotto controllo per non irritare gli azionisti». In effetti quanto a compensi annui la media del Ceo finanziari in Italia è al di sotto delle medie dei loro colleghi anglosassoni: il massimo sono (dati 2011) i 5,07 milioni (divisi più o meno a metà fra fisso e azioni-option) per Federico Ghizzoni allo stesso Unicredit, per poi scendere ai 3,14 di Nagel a Mediobanca, i 2,4 di Passera a Intesa (si è dimesso a novembre senza liquidazione), i 2,3 di Perissinotto a Generali, gli 1,7 di Viola alla Bper.