Andrea Galli, Corriere della Sera 4/7/2012, 4 luglio 2012
NEL SALVADANAIO SPARITO IL MISTERO DELLA SUORA
Cercavano il salvadanaio, l’arraffarono insieme a una bambola e una macchinina, lasciarono un cadavere. Il viso contro il cuscino. Gli occhiali sul comodino. Suor Rosangela morì soffocata. Non vide l’assassino: era molto miope, e comunque non trovò il pulsante della luce, non ebbe il tempo. Però l’aveva sentito, l’assassino: trambusto nella camera da letto, cassetti aperti e palloni rotolanti e tricicli urtati che la svegliarono, al piano terra, le 3 di notte del 3 di gennaio; 1986 l’anno, Torino la città, Borgo Po il quartiere, via Asti la strada, l’istituto Pro Infantia Derelicta il luogo del delitto. Delitto irrisolto. Trentasette anni, suor Rosangela. Bergamasca, all’anagrafe Silvana Gasparini, suora terziaria francescana, 152 centimetri d’altezza, persona timida, «facilmente emozionabile» scrissero gli investigatori che ancora lavoravano più di fiuto che di computer e laboratorio. Persone, sensazioni.
In via Asti le religiose non ci sono più, sostituite da una comunità laica che ha mantenuto nome e missione, l’aiuto a piccoli in difficoltà, orfanelli, figli di carcerati, di banditi, di genitori che non li vogliono. Tre piani d’edificio, le inferriate alle finestre del primo piano e vasi di fiori sui davanzali, le ante chiuse al secondo, il vociare tumultuoso di bimbi dall’ultimo piano. Il civico, il numero 32, è impresso sopra una targhetta, cifre azzurre su sfondo bianco. La strada, a senso unico, taglia l’inizio delle colline tra ville signorili e la caserma La Marmora, con le sue possenti minacciose sembianze e il passato di vendicative torture dei fascisti dopo l’8 Settembre. Parallela a via Asti c’è via Quintino Sella. Il civico 45 confina con l’istituto. Un muro di due metri, una pianta di fico. Gli assassini scapparono da qui. Da qui erano entrati. Uno di loro conosceva il percorso, sostennero i poliziotti della Squadra mobile. Come faceva a conoscerlo? «L’aveva percorso pochi giorni prima».
Il 31 dicembre un ragazzino di 13 anni, serbo-croato nato a Zagabria, 120 centimetri d’altezza, moro, occhi grandi, residente in un campo nomadi di Torino, era stato acciuffato da una volante. Cercava di rubare in una casa. Sotto l’età minima per venire arrestato, lo trasferirono alla Pro Infantia Derelicta. Scappò. Dal retro. Corse nel giardino, si servì di una scaletta a pioli e si arrampicò sul fico, saltò giù dall’altra parte. Era sgattaiolato dalla finestrella di un bagno: il locale divideva una parete con la camera di suor Rosangela, che aveva preso in custodia il ragazzino il quale a sua volta durante la breve permanenza aveva visto, proprio nella stanza, un salvadanaio e forse aveva sentito, per bocca di altri bimbi, ugualmente cinici e disillusi bambini di strada, evocare chissà quali bottini nascosti... Infatti nella cassaforte dell’istituto c’erano dieci milioni di lire, provento delle donazioni di famiglie torinesi. Ma il ladro e dunque l’assassino non lo sapeva. Anzi, non lo sapevano. Gli investigatori si convinsero che ad agire erano stati il 13enne e il fratellino d’un anno minore. Figli di Miodrag Nikolic, nato nel 1952. Di questo Nikolic si diceva — non solite razziste voci ma didascaliche dritte degli informatori — che allevasse i figli al crimine e insegnasse i colpi nelle abitazioni. Li portava sul posto e tornava a prenderli. Macchine a volte veloci e altre volte scassate. La polizia stilò un elenco ma nessun testimone si ricordò d’averne vista una nei paraggi. Eppure, il giorno successivo all’assassinio, Nikolic padre scomparve. Lo cercarono e non lo trovarono. Rispuntò più avanti. Gli chiesero conto. Perché sei fuggito? Cosa nascondi? Negò, negò tutto. La suora? Boh. I due figli? Li lasciassero in pace. Il 23 aprile 1990 il giudice prosciolse l’uomo per non aver commesso il fatto. Era accusato d’avere indotto i bambini a commettere i reati. Il furto trasformatosi in assassinio. Per la giustizia, un castello di carte. Per tanti, in Questura, la maledetta conseguenza di un’indagine piena di indizi e senza prova regina.
Non avevano nemici le suore e non ne aveva suor Rosangela. Non erano stati gli ospiti di quella notte a uccidere e non erano state le religiose. Dall’ingresso principale non era passato nessuno, non c’erano segni d’effrazione. All’istituto mai erano arrivate minacce. Certo un ladro con esperienza — per di più in un quartiere signorile, silenzioso — non avrebbe assaltato un palazzo di suore che accudivano piccoli poveri. A meno che non sapesse della cassaforte. Chi s’aggirò al piano terra non cercò la cassaforte, custodita nella camera della madre superiora. L’omicida forzò una portafinestra sul giardino ed entrò direttamente nella camera di suor Rosangela. Lei si destò dal sonno, e domandò «chi c’è mai?, cosa succede?», una mano le torse il braccio dietro la schiena e un’altra mano le spinse il volto sul cuscino, fino a zittirla. Il salvadanaio scomparve e non fu ritrovato; conteneva i miseri risparmi dei bambini della Pro Infantia Derelicta. Non fu l’unico ammanco. Le agiate mamme di Borgo Po avevano regalato un grande sacco di giocattoli. Stava vicino al letto di suor Rosangela. Il ladro, e poi l’omicida, non resistette alla tentazione di romperlo, arraffare una bambola e una macchinina, un gesto non per depistare o lasciare una firma, forse soltanto semplicemente un riflesso condizionato: Natale era appena passato, sostava nell’aria.