Gian Arturo Ferrari, Corriere della Sera 4/7/2012, 4 luglio 2012
MA L’ETÀ NON PUÒ ESSERE UNA COLPA
«La bellezza di madame Danglars era ancora degna di menzione — concede Alexandre Dumas nel Conte di Montecristo — malgrado i trentasei anni». All’inizio di Guerra e pace, Tolstoj, noto misogino, deve ammettere che «Anna Pavlovna Scherer, a dispetto dei suoi quarant’anni, era piena di vivacità e di slanci».
Fino a poco più di un secolo fa, varcata la trentina ci si inoltrava di norma in una terra desolata dal punto di vista sia fisico sia mentale, prodromo della vecchiaia. Vecchio e giovane non sono termini assoluti, ma nemmeno del tutto soggettivi: sono relativi, dipendenti dalla storia, il che vuol dire dalle condizioni sociali e materiali di vita. E soprattutto dalle cognizioni mediche, il miglioramento delle quali, eliminando intere categorie di malanni mortali e riducendo in modo drastico l’impatto di altri, ha sensibilmente allungato la vita. Il che, combinato con l’ossessione per l’aspetto, la forma e il corpo, ha generato non già un incremento dei vecchi classicamente intesi, ma la nascita della nuova categoria dei paragiovani. Individui molto ben manutenuti (se non restaurati) e fermamente intenzionati a non cedere terreno alle generazioni che si accalcano alle loro spalle. Ovvero, nella variante più subdola e ipocrita, assertori della necessità di introdurre meccanismi molto rigidi di alternanza e di uscita, salvo scoprire, venuto il loro turno, che sussistono inderogabili ragioni che, ahimè, li costringono a rimanere al loro posto.
Questo dei paragiovani (che ovviamente spostano l’intera scala di età, rendendo adolescenti i trentenni e ragazzini, se non infanti, i ventenni) è uno degli effetti imprevisti, o per meglio dire dei paradossi, del progresso, come la sovrapopolazione determinata dal crollo della mortalità infantile e dalla eliminazione, almeno nel mondo occidentale, della guerra. La natura paradossale del fenomeno si vede in tutta la sua nettezza sul tema dell’occupazione, dove anzi diventa un dilemma siberiano, come direbbe Martin Cruz Smith: caduti in acqua da un buco nel ghiaccio, l’alternativa è restarci e guadagnare qualche minuto di vita o saltar fuori e morire subito — ma fuori — a quaranta gradi sotto zero. Nel nostro caso non si può andare in pensione troppo presto, per non gravare per troppo tempo sulle casse dello Stato, ma in questo modo si continuano a occupare i posti che per natura spetterebbero ai giovani. Quel che è certo è che non si esce dal paradosso (e dal buco nel ghiaccio) con i mezzi della retorica. Con le allocuzioni, con le deprecazioni e con le esortazioni, con tutto il collaudatissimo armamentario che è senza dubbio la più abbondante risorsa nazionale.
Per trasformare il paradosso e il dilemma in un problema — dunque in qualcosa di affrontabile e, si auspica, risolvibile — occorrono due cose soprattutto. La prima è far presente alle giovani generazioni — quelle che più soffrono e che più sentono l’urgenza di una soluzione — che questo è un compito essenzialmente loro, che nessuno non solo vuole, ma letteralmente può sostituirsi a loro, che loro sono certo titolari di un diritto, ma di un diritto che rimarrà astratto e dunque inefficace finché loro stessi non sapranno trovare la via individuale e collettiva per attuarlo. La lotta tra le generazioni, che è uno dei moderni sostituti della lotta tra le classi, possiamo sperare sia meno cruenta, ma certo non si fa a suon di appelli. La seconda è affrontare il problema là dove si presenta nella maniera insieme più acuta, più clamorosa e più carica di conseguenze e cioè nella formazione del ceto politico. Certo, non si tratta di adottare i meccanismi ipocriti di cui si diceva sopra, ma bisognerà pur rendersi conto che il nostro ceto politico resta in servizio permanente effettivo vita natural durante e che una sua parte è stata contemporanea di Churchill e di Truman. Forse qualche proposta in merito sarebbe la più gradita (anche all’elettorato).