Ernesto Galli Della Loggia, Corriere della Sera 4/7/2012, 4 luglio 2012
LA PERCEZIONE DEL PREMIER
Nessuna persona ragionevole può pensare che Mario Monti sia «di sinistra». Così come nessuna persona ragionevole può pensare che la politica del suo governo sia una politica «di sinistra», qualunque cosa oggi questa espressione in un caso e nell’altro possa ancora significare. Quella di Monti è più semplicemente una politica che si sforza di fare del principio di realtà (qui ed ora: dunque con i relativi vincoli anche di natura sociale che nessun mandato popolare lo ha autorizzato a mutare) il suo asse; e degli strumenti tecnici la sua principale risorsa. Può definirla «di destra» solo chi dei vincoli della realtà ha deciso programmaticamente di infischiarsene (almeno a chiacchiere), o è convinto che è meglio farsi governare dall’utopia e dall’immaginazione anziché dalla competenza.
«Di destra» — arieggiante qualcosa che può essere definito «di destra», o forse bisognerebbe dire assai meglio «borghese» — è semmai un tratto intimamente personale della figura del presidente del Consiglio e di alcuni suoi ministri. Un certo tono sommesso ma insieme perentorio, una confidenza anche lessicale e sintattica con le buone maniere, una certa esibita sprezzatura verso tutto ciò che sa troppo di «popolare» e dunque, inevitabilmente, di demagogia. Sa tutto ciò di «destra»? Equivale tutto ciò ad essere «di destra»? Sia pure. Ma, per parlare il linguaggio della nostra storia, sa soprattutto di quella destra che fu la «destra storica». Cioè di qualcosa che la sinistra ragionevole italiana, da Turati in poi, consapevole di vivere in un Paese troppo facile preda di pulsioni plebee e di distruttivi radicalismi, si è sempre guardata dal disprezzare.
E infatti, non a caso, questa tradizione si sta ripetendo oggi. Da settimane assistiamo infatti ai più vari tentativi — ultimo quello di D’Alema, anche se lui naturalmente smentisce — di coinvolgere Monti in una prospettiva di centrosinistra che guardi alle prossime scadenze elettorali e postelettorali. Non si tratta di tatticismi o di strumentalizzazioni. Ci sarà anche questo, certo. Ma c’è soprattutto la riprova dell’antica capacità/propensione della sinistra italiana a colloquiare, a stringere rapporti, a stabilire intese più o meno esplicite, anche con uomini e forze da essa lontane, anche con quelle che possono essere definite «di destra».
Ciò che è strabiliante e tipico dell’Italia è il fatto che invece proprio la destra politica vera, il Pdl, in Monti e nella sua politica non sappia riconoscere nulla che la riguardi, che parli alla sua cultura o al suo cuore. Nulla. E che anzi lo consideri grottescamente come una specie di suo nemico naturale, di subdolo e pericoloso avversario di cui sbarazzarsi al più presto. È qui che si manifesta in pieno la profonda anomalia della destra italiana e dell’itinerario che l’ha portata al punto in cui si trova. Forse per Berlusconi no; forse per qualche cameriere o qualche oca giuliva che gli stanno intorno, lo stesso; ma per tutti gli altri, per la gran massa dei deputati e dei senatori del Pdl, è verosimile che il cosiddetto populismo, lungi dall’essere una vocazione, sia semplicemente una deriva inconsapevole. Non essendogli riuscito di essere i protagonisti di alcuna «rivoluzione liberale», non immaginando neppure cosa sia la durezza austera dei conservatori, non gli è rimasto che essere dei populisti, o per meglio dire un’imitazione del populismo. E così, capeggiati da una delle massime concentrazioni di ricchezza del Paese, tutti o quasi con un reddito abbondantemente sopra quello medio degli italiani, la loro parola d’ordine preferita è diventata «dagli ai poteri forti»!