Alessandro Leipold, Il Sole 24 Ore 4/7/2012, 4 luglio 2012
PERCHÉ L’FMI STRIGLIA BERLINO
Pare proprio che si stia per entrare nello scenario più preoccupante per l’economia mondiale, quello di un rallentamento sincronizzato a livello globale. Finchè vi erano uno o più cilindri che funzionavano - che fossero cinesi, di altri paesi emergenti, o magari anche statunitensi - sussisteva la prospettiva di una locomotiva in grado di trainare anche i vagoni più deboli, Italia compresa. Ma ormai il temuto contagio non si è fermato all’interno della zona euro: si è sparso anzi ai quattro angoli del mondo. Anche se sarebbe sviante attribuire ogni rallentamento alla crisi dell’euro, non vi è dubbio che questa è oggi il principale cappio al collo dell’economia mondiale.
Da tempo i più importanti istituti internazionali, dal Fondo Monetario all’Ocse, hanno infatti individuato nella crisi dell’euro il rischio chiave per l’economia mondiale, attribuendole la responsabilità delle ripetute revisioni al ribasso delle proprie previsioni di crescita. In quest’ultima fase, poi, è stato un vero crescendo di ammonimenti istituzionali. Due settimane fa, concludendo la missione Fmi per la zona euro, Christine Lagarde avvertiva, con toni insolitamente forti, del rischio di un contagio globale legato ad un’ulteriore intensificazione della crisi euro, e sollecitava «una risposta collettiva più decisa e forte». E ancora ieri, alla fine delle discussioni annuali con le massime autorità degli Stati Uniti, la Lagarde ha indicato la crisi in Europa tra i maggiori fattori di freno alla ripresa statunitense. Il monito figura in apertura delle conclusioni della missione Fmi: «La ripresa Usa resta tiepida e soggetta ad elevati rischi al ribasso, dovuti alle tensioni finanziarie nella zona euro e all’incertezza riguardo i piani di finanza pubblica interni».
L’Fmi è intervenuto ieri con toni analoghi anche sulla Germania, divulgando le conclusioni dell’esame annuale dell’economia tedesca da parte del Consiglio d’Amministrazione, ed individuando pure lì un’intensificazione della crisi euro e un rallentamento globale quali maggiori rischi alla crescita. In tale contesto i direttori esecutivi hanno esortato le autorità di Berlino a «mettere in opera misure per stimolare la crescita della domanda interna, che avrebbero importanti effetti positivi (spillover) per la zona euro e globalmente». Sono stati notati anche importanti rischi bancari tedeschi, data «l’elevata leva finanziaria, la dipendenza da finanziamenti all’ingrosso, la bassa qualità dei capitali, la scarsa profittabilità, e l’elevata esposizione di alcuni istituti alla periferia euro». Da qui l’invito a «sforzi maggiori» per ristrutturare gli istituti regionali, le influenti Landesbanken. In questo quadro, non ci si può che auspicare una tempestiva ed efficace messa in opera della supervisione bancaria europea decisa all’ultimo vertice di Bruxelles, e che la vigilanza Ue venga estesa anche a tali istituti.
A questi avvertimenti istituzionali si è aggiunta una serie initerrotta di dati preoccupanti sui principali Paesi che si sperava agissero da traino. A cominciare dalla Germania, dove l’attività manifatturiera (misurata dall’indice Pmi) si è contratta il mese scorso al ritmo più intenso da tre anni a questa parte, con i nuovi ordini in calo per il dodicesimo mese consecutivo. Sebbene non vi sia niente di cui gioire, c’è almeno da augurarsi che quando i danni dell’euro-crisi si cominciano a sentire anche nel cuore dell’Europa, l’ingegno si aguzzi. Ma l’evidenza dei danni è, purtroppo, ancor più estesa: non solo in Cina (con l’ottavo rallentamento di fila del comparto manifatturiero), ma anche in India e Brasile. In sostanza, in tutti i Brics maggiori si registrano frenate della produzione industriale, cadute delle vendite al dettaglio, ed un calo (benvenuto, ma pur sempre segno di un raffreddamento) dell’inflazione.
In questo quadro, spicca l’assenza di una risposta globale. All’epoca della crisi asiatica, nel Febbraio 1999, la rivista Time mise in copertina «Il Comitato che ha Salvato il Mondo» con i tre "marketeers" (Rubin, Greenspan, e Summers) ai quali veniva attribuito di aver scongiurato un collasso economico globale. La leadership Usa era allora evidente - forse anche eccessiva, ma almeno vi era un punto di riferimento solido, un manager unico della crisi (altro che vertici a 27 o 17, o "troike" divise al loro interno) che riusciva a dirigere la risposta a livello internazionale. Oggi vi è invece un’amministrazione Usa bloccata da una polarizzazione disfunzionale del sistema politico americano, un G-7 ormai superato, e un G-20 tuttora in rodaggio. Non restano che le banche centrali, che molto hanno fatto e sulle quali in effetti si continua a fare affidamento su entrambe le sponde dell’Atlantico. A cominciare, ci si augura, da una riduzione dei tassi della Bce nella riunione di giovedì. Ma, come si sa, ci vorrà ben altro, compresa una rapida implementazione delle decisioni dell’ultimo vertice euro.