Michele Smargiassi, la Repubblica 3/7/2012, 3 luglio 2012
LE FESTE ROSSE
I cappellacci alla zucca sono «un milione» mitologicamente tondo, poi vengono «26 quintali di lasagne, una ventina di quintali di anguille, fritte e allo spiedo, 30 quintali di salama da sugo, migliaia di polli allo spiedo e alla griglia, ottanta quintali di pane...». Consegnato orgogliosamente alla stampa locale, lo stato delle salmerie della Festa dell’Unità di Ferrara del 1960, all’alba del decennio del benessere, sembra scritto da Rabelais. La vertigine della lista di questo pranzo da Gargantua può far sorridere, e alimenta il luogo comune che gli antagonisti politici del Pci gli ritorcevano addosso volentieri: dire «la festa della salamella» era un modo facile per sbeffeggiare un partito e una politica.
Errore, però, grave errore di prospettiva. Le feste dell’Unità non sono state la semplice proiezione ludica e goduriosa della strategia del Pci. Il Pci le inventò, o meglio le evocò da un fondo antropologico di feste popolari, ma quelle poi esplosero in una prepotente vita propria, governata a fatica dai dirigenti, anomala, contraddittoria, tant’è vero che il Pci nell’89 fece
harakiri
ma loro no, e anche negli anni delle sfortune elettorali postcomuniste le Feste continuavano a crescere, a macinare incassi e presenze, Golem sociali ormai indipendenti dal loro creatore. Le feste dell’Unità fanno parte più della storia d’Italia che della storia del Pci, sostiene infatti Anna Tonelli, storica, docente a Urbino, studiosa del costume politico nelle sue trasversalità. E lo dimostra con questo suo
Falce e tortello
(Laterza), storia oltre i
cliché
di un oggetto politico non identificato, ricerca documentaria di faticosa gestazione per l’assenza quasi assoluta di fonti secondarie:
nessuno ha mai analizzato le
kermesse
rosse come avrebbe meritato un fenomeno di quelle dimensioni, continuità e presenza. Perché le Feste dell’Unità, appunto, nessuno sa bene cosa siano state davvero, neanche gli scrittori che le raccontarono, Calvino, Rodari, o Moravia, che pure per primo capì quel loro essere ibridi tra «parrocchia, soviet e mercato». Expo, propaganda, simbolo, convivia-lità,
fund raising,
motivazione dei militanti, mitopoiesi (coccarde, bandiere, murales), esibizione muscolare di capacità organizzative, tutte queste cose ci sono state, certo, ma non sempre, e mai essenziali: la sottoscrizione, ad esempio, non fu la preoccupazione di quella quasi ingenua “Scampagnata de l’Unità” del 2 settembre 1947 a Mariano Comense che è considerata la capostipite, «festa gioconda del popolo» pensata come risarcimento di «giusta razione di gioia di vivere» alle paure e sofferenze di
guerra e dittatura. Non furono i soldi la molla per ripetere l’esperienza, ci si accorse solo qualche anno più tardi che nei “chioschi”, non ancora “stand”, a forza di vendere panini e birre s’accumulavano «sacchi di soldi, un fracco di soldi s’è fatto...». La propaganda, neppure: per quanto possa suonare strano, a lungo non ci furono comizi nelle Feste del Pci, solo timidi e poco invadenti “saluti”: fu il «ritorno del compagno Togliatti» sul palco della festa di Roma nel settembre del ’48, prima apparizione pubblica dopo l’attentato, a introdurre il «comizio di chiusura», ma anche in seguito la preoccupazione era di non turbare troppo il «festoso e sereno bivacco», i balli, le tavole via via più raffinate, le lotterie. Quanto alla militanza, quella ha sofferto invece in tempi più recenti, rimpiazzata sempre più da ristoranti appaltati a privati e dall’invadenza fieristica degli spazi commerciali.
Via via che l’analisi storica si snoda, è chiaro che le cittadelle effimere di tubi Innocenti furono un fenomeno solo in parte compreso e perfino
governato dal loro “titolare”: mentre il loro successo cresceva ben oltre i confini dell’autoriconoscimento e della simpatia politica, e il sistema si articolava in una gerarchia smisurata di migliaia di feste di sezione, comunali, provinciali e nazionali, il Pci scoprì che erano una società in sé. Che gli portava “in casa”, senza possibilità di eluderle, le contraddizioni del suo rapporto con la società e la cultura, sotto forma di dilemmi non così banali: ballo liscio o
boogie woogie?
Claudio Villa o Ivan Della Mea? Dibattito o tombola? Pedagogia o demagogia? Cultura alta o popolare? Le sfilate di “Miss Unità”, esaltazione o umiliazione della donna comunista?
Cosa sono state dunque, nel profondo, le feste dell’Unità, per oltre sessant’anni? L’elenco pantagruelico di Ferrara, simile a tanti altri, ci dà un indizio. C’è sicuramente, all’origine delle feste rosse, e Tonelli ne prende debita nota, la festa giacobina, del resto furono i “compagni” tornati dall’esilio politico in Francia a importare la formula rubata
alle feste dell’Humanité ma anche a quelle del 14 luglio. Ma, almeno sotto le Alpi, l’Albero della Libertà ha proiettato l’ombra di un albero della cuccagna. Più che festa di una rivoluzione già vittoriosa, del resto, quelle comuniste erano feste di una rivoluzione rinviata a un futuro lontano, feste di un sogno rimesso nel cassetto dalla lenta via italiana al socialismo. Ma il desiderio represso, ogni festa di popolo lo trasfigura in forma di carnevale. Festa del rovesciamento dei ruoli, delle gerarchie, dei poteri, effimero e fragile ma almeno per un giorno reale e vissuto: Tonelli ci lascia solo intravedere che le Feste dell’Unità siano state anche questo, ma la sensazione emerge dalla sua documentata ricostruzione, dagli illuminanti testi minori, le minute delle relazioni ai seminari alle Frattocchie, gli articoli autocelebrativi del giornale eponimo, la memorialistica dei protagonisti. «Nei compagni si vede la passione per un lavoro che non è un lavoro», scrive per esempio un anonimo resocontista dell’Unità sulla Festa di Modena
del ’54, e fa centro, senza saperlo. Il Volontario, figura centrale, mitica e assieme popolare delle Feste, non è un galoppino stakanovista al servizio del gioco del tappo come nelle caricature degli avversari. È un lavoratore che sta sperimentando un ribaltamento mitico, carnevalesco (nel senso antropologico) del lavoro, che dentro il falansterio protetto della Festa diventa lavoro liberamente scelto, senza retribuzione né sfruttamento, senza classi né alienazione, senza gerarchie che non siano quelle funzionali e di merito, dove la fatica è scelta e premio
a se stessa, dove l’utile politico sta nel
come
collettivo e non in qualche palingenetico
perché.
Che questo slancio andasse al servizio di un progetto politico, che il Pci se lo meritasse o meno, che lo spendesse bene o male, ha meno importanza della scoperta di un rito antropologico- politico di questa potenza nella storia recente del nostro paese.
Ma il carnevale non è una vera rivoluzione, è più spesso il balsamo della sua mancanza; e l’albero della cuccagna ha due facce, una rivoluzionaria e una consumista. Dalla fine degli anni Ottanta, con l’eclisse delle ideologie, le Feste continuano, ma trasferiscono il desiderio su altre mete. Il gigantismo delle “cittadelle rosse” da milioni di presenze si nutre ormai degli stessi miti simboli e consumi del resto della società. Nell’Italia del pensiero unico anche il falansterio rischia di ridursi a ricreazione.