Rodolfo Di Giammarco, la Repubblica 1/7/2012, 1 luglio 2012
SERGIO RUBINI
«Tutto sta nei capelli. Il fatto che non mi sono mai pettinato genera una serie di equivoci. Io scomposto, caotico, scapigliato, zingaro, casinista del sud. E invece poi sono uno regolare, molto meno meridionale di come sono visto. A vent’anni sono scappato a vivere in Norvegia, dove regnano l’ordine e il rigore, e dove c’è la
biondezza,
un mistero lontano dal mio che però mi attraeva. Ecco, questa tensione verso un’altra natura, un altro mondo, è il conflitto che vivo. Il cinema m’ha dato una grande opportunità: quella di conoscere, e conoscermi». Sergio Rubini parla col suo tono pacato un po’ filosofale, sornione, anche bonariamente grifagno. Ha i capelli (effettivamente) molto in disordine. La pelle ambrata e liscia di un cinquantaduenne eterno ragazzino. Offre caffè e acqua alle nove di mattina a casa sua, uno splendido secondo piano con terrazzo cechoviano su una delle più raccolte piazze del centro storico di Roma, terrazzo dove s’accede attraverso stanze fatte di poltrone dispari, di librerie non uniformi, di mobili mai ortodossi.
«Io non mi ritengo geniale, perché tra le cose che so e quelle che non so fare, preferisco quello che non so fare. Mi metto sempre in discussione, anche al limite dell’inadeguatezza. Mozart scriveva alla sorella «stanotte sono tanto stanco che preferisco comporti una sinfonia piuttosto che inviarti una lettera », e lì c’è l’essenza del genio, che mette a frutto la sua inclinazione. Io invece m’ostino a fare l’attore malgrado le mie
spigolosità». L’arte del contraddirsi, ammette, lo carica, lo motiva, lo stimola. «Le prove della vita mi fanno paura, ma le affronto meglio senza protezione. Non perché sia coraggioso, ma semplicemente perché sono spaventato e allora mi ci butto più volentieri in un rischio ». Un fatto concreto? «Rompere o interrompere i rapporti, “scucire” una relazione, è una delle avventatezze che sono state il mio sport preferito. Un salto nel buio cui però ho scoperto di saper rimediare, ricucendo». Fatale che si parli di Margherita Buy... «Ma sa che abbiamo divorziato una settimana fa? Perché pensavamo che dopo la separazione fosse tutto automatico. Sono andato a prenderla a casa col motorino, siamo corsi in tribunale, abbiamo perfezionato sorridendo le pratiche del divorzio, con quelli degli uffici che ci facevano i complimenti perché molti ci percepiscono sempre insieme, e d’altronde io nei film faccio spesso il marito di Margherita: lo sono in un recente cortometraggio di Quartullo, e faccio il suo compagno nell’opera seconda di Susanna Nicchiarelli,
La scoperta dell’alba,
tratta dal romanzo di Walter Veltroni, di prossima uscita».
Non è altrettanto di dominio pubblico il solido rapporto personale (e artistico) che Rubini ha («da dodici anni, l’unione più stabile della mia vita») con Carla Cavalluzzi. «È del mio paese, di Grumo Appula in provincia di Bari, era amica di famiglia e la conoscevo quando era ragazzina. Poi l’ho incontrata di nuovo girando
Tutto l’amore che c’è,
scoprendola appassionata di cinema e laureata con una tesi su Kieslowski. Con lei ho stretto subito, ha partecipato con me e Starnone alle sceneggiature de
L’anima gemella, L’amore ritorna
e
L’uomo nero
e ha condiviso con me e Angelo Pasquini
La terra
e
Colpo d’occhio
». Dice che l’assiduità, la continuità di questo legame costituisce una svolta dopo una bella esistenza nevrotica, e il merito è tutto dell’analisi. «Sono quattordici anni che faccio psicoterapia, e m’è servito a essere più consapevole, a liberarmi della mia compulsività, a disperdere meno sforzi, a finirla di consumarmi nel cercare conferme e a trovare armonia con la mia donna».
Tra le persone con le quali s’è risintonizzato c’è Umberto Marino. «Il sodalizio con Umberto cominciò a teatro a metà degli Ottanta, all’inizio c’era con noi anche Ennio Coltorti. La collaborazione con Umberto proseguì finché non ci siamo persi di vista anche noi. Ma
io ero strano. Ero capace di fargli telefonate anonime per sentire la sua voce. Anche un’amicizia, una collaborazione stretta che s’interrompe, è un mistero. È sembrato che io fossi diventato più antipatico, ma questa è la mia conquista: non avere più la voglia assidua di piacere... Poi adesso io e Umberto Marino ci siamo ritrovati nel progetto del film che sto per girare,
Mi rifaccio vivo
». Una figura con cui Rubini non potrà rifamiliarizzare è Federico Fellini, di cui interpretò il ruolo autobiografico del regista giovane in
Intervista
del 1987. «È una voragine, quella che m’ha lasciato l’assenza di Fellini, un padre senza che io me ne accorgessi, lui così presente con le sue battaglie da autore, con la sua lotta a Berlusconi contro le interruzioni dei film, con quelle antenne della televisione al posto delle frecce degli indiani, con quel suo impegno ironico contro teoremi oscuri a forza di telefonate mattiniere a direttori di giornale, a politici, a scrittori. E pure a me, che mi preparavo la voce per parlargli all’alba». E ce n’è un’altra, di persona di riferimento, che è scomparsa dall’orizzonte di
Rubini. «Dopo
Colpo d’occhioPaolo
Vagheggi diventò per me il Cicerone dell’arte contemporanea, ed è stato anche un amico...».
Rubini parla volentieri di maestri, di decani della cultura, di persone-faro. «Si dice che non c’è spazio per i giovani, ed è vero, ma io metterei l’accento anche su una denuncia alla rovescia: ci sono pochi grandi vecchi, pochi intellettuali scomodi, e le personalità di spicco sono
elastiche,
inclini inconsciamente al compromesso da quando nel nostro Paesec’èstatoalungounpresidentedel consiglio identificabile col padrone delle tv, con la scusa io-lavoro-sotto-ilgoverno- o-per-le-produzioni-di-unoche- non-condivido-ma-che-mi-lascia- libero. Un’anomalia, con lieve censura strisciante. E le conseguenze di questo — la trasformazione orwelliana del cittadino italiano, il trionfo del prodotto di massa — oggi si sentono. Io da ragazzino, negli anni Settanta, facevo parte della gioventù anarchica di provincia, poi quando sono tornato in Puglia ho trovato la sconfitta dei sogni e la vittoria dei soldi. E non accetto questa mancanza di luce, questo buco nero. Nei film, l’happy end è un atto di coraggio, è indicare comunque una strada. Mi piacciono le persone, la capacità dostoevskiana o tolstoiana di salvarsi, non trovo giusto classificare la letteratura “prima o dopo Kerouac”, ho bisogno deiclassici,d’unlegamecolpassatoche non sia retorico, e anche d’un recupero di me». Parla quasi sempre di sé, nei suoi film? «Certo, ma con mistificazioni. Nel senso che mi viene da raccontare ciò che
avrei volutoche
fosse successo, incontri come non sono mai avvenuti. I film più “miei” sono anche menzogneri, tipo
L’amore ritorna,
o
Tutto l’amore che c’è.
Non metto in giro messaggi nella bottiglia: quando scrivo una storia, sento la responsabilità di regole narrative precise. Ciò non esclude che la scrittura abbia una dimensione intima e struggente. E se dirigere un film è continuare a scrivere, interpretarlo è un fatto di irrazionalità».
Rubini nasce teatrante («e tuttora ho anche un progetto a due personaggi per la scena» confessa), e dopo
American Buffalo
di Mamet,
La stazione
di Marino e
La notte è madre del giorno
di Norén ha avuto un mutamento genetico, un transfert per il cinema. «Quando feci a teatro
La stazione,
dove evocavo un po’ mio padre capostazione oltre che intenditore d’arte e teatrante filodrammatico, pretendevo un minuzioso
naturalismo, e uscire in quinta era frustrante. Il teatro, lo dico con amore, è un imbroglio, e lo insegnava Eduardo che solo con una mossuccia di spalle dava l’impressione di piangere. Il cinema è più
spazioso,
per come lo penso e lo vivo. Ma tornerò a essere anche teatrante, lo sento». Intanto c’è il suo nuovo film, che girerà da luglio. «
Mi rifaccio vivo
è una commedia del post-rancore, dove un uomo s’immagina d’avere un nemico che l’ha messo in ombra, e attraverso un espediente plautino da scambio d’identità entra come angelo custode nella vita dell’altro per rovinarlo, sennonché scopre che anche quello è un disgraziato. È il quarto film con la Fandango, con Neri Marcorè, Lillo (di Lillo & Greg), Emilio Solfrizzi, Margherita Buy, Valentina Cervi, Vanessa Incontrada e io nei panni di un barbone». Curriculum. Le radici famigliari? «Apprendistato eterogeneo. Molto di tutto. Una sera papà mi costrinse a prender parte a un
Natale in casa Cupiello
con lui. Non recitava bene. Io m’entusiasmai. Poi con la professione mi sono trovato a fare da esempio. Sono senza figli. Mi domando chi si prenderà cura di me». Idea della crisi attuale? «Diceva Hölderlin che dove c’è crisi c’è cambiamento, c’è salvezza, un ridare valore alle cose». Amici? «Per esempio un anziano primario di chirurgia toracica del Forlanini, che dalle 5,45 della mattina riceve telefonate da tutti». La letteratura? «Si parla sempre di Philip Roth, ma conta anche Joseph Roth cantore della fine asburgica. Murakami. Orhan Pamuk». La musica? «Sto tra Bach e Mozart, tra rigore e genio». Il traguardo più bello? «Aver risposto alla domanda letale di quelli del Sud: “Ma dove vuoi andare?”».