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 2012  luglio 01 Domenica calendario

QUEL CHE RESTA DI KAREN


Era la sua Africa. Meno virile, più sfortunata, ma altrettanto aspra di quella di Hemingway. La fece scoprire al mondo settantacinque anni fa. Stesse colline, stessi leoni, diversi gli affanni: con le piantagioni di caffè al posto del whisky. Aroma di fatica e non di bottiglia. La baronessa Karen beveva il tè, Ernest la birra. Altri gradi alcolici. Diverso anche il modo di usare armi, cartucce e polvere da sparo. Lei per diciassette anni visse l’Africa, lui ci passò per vacanza e safari. Però Hemingway fu sincero e quando nel ’54 gli dettero il Nobel mandò a dire che lo meritava anche la «meravigliosa Isak Dinesen». La signora venuta dal freddo (Danimarca) fu una meravigliosa anche se sofferta cartolina turistica per quell’altopiano dopo che Conrad con il suo
Cuore di tenebradal
Congo aveva un po’ incupito l’atmosfera. Il Kenya nelle parole di Karen era più attraente. «In Africa avevo una fattoria ai piedi degli altipiani del Ngong. A centocinquanta chilometri più a nord su quegli altipiani passava l’equatore; eravamo a milleottocento metri sul livello del mare. Di giorno si
sentiva di essere in alto, vicino al sole, ma i mattini, come la sera, erano limpidi e calmi, e di notte faceva freddo».
Settantacinque anni dopo cosa resta de
La mia Africa?
Il libro uscì nel ’37, il film di Pollack nell’86 (vinse 7 premi Oscar). Karen è morta a settantasette anni nel ’62 a casa sua, davanti ad un mare grigio, lontana da quei colori che l’avevano riscaldata. Nessun’altra scrittrice ha avuto il suo passo sull’Africa e la sua camera con vista, ma onestamente sono cambiati temi e tempi. Nadine Gordimer, Nobel nel ’91, è nata e vive in Sudafrica, da sempre impegnata contro l’apartheid, sicuramente non è tipa da dire «quando dormo sogno e i sogni sono sempre belli». Dice il protagonista de
Il giovane Holden
che
Out of Africa
(titolo originale del romanzo,
ndr)
è bellissimo, anche se ha preso il libro per sbaglio alla biblioteca, chiamerebbe l’autore volentieri al telefono. Ma Salinger scrive nel ’51 e poi certe telefonate non si fanno mai.
Karen aveva una fattoria, una piantagione, un mondo. Tutto liquidato, in frantumi, in bancarotta. Non era brava a fare affari, anzi era un disastro, anche se il suo soprannome era Njeri Wagoka, “quella indaffarata”. Se è rimasto qualcosa è per le donazioni danesi e dell’Universal Studios che ha girato il
film e ha lasciato abiti e materiali. Il quartiere di Ngong, quindici chilometri fuori da Nairobi, oggi è una affollata zona residenziale dove tutto si chiama Karen: ospedale, albergo, supermercato, centro commerciale, college. La vegetazione è bella, le ville nascoste anche. Quella di Karen era modesta, tra cactus giganti, cipressi, bouganville: la casa Mbogani Farm House costruita dall’ingegnere svedese Ake Sjogren
nel 1912, fu comprata dal governo danese nel ’59, ristrutturata e donata nel ’64 al Kenya per la sua indipendenza. È aperta al pubblico dall’86. Tutto sembra vero, quasi tutto è falso. Gli stivali nella stanza da letto sono quelli che Meryl Streep ha indossato nel film, la piccola macchina da scrivere Corona è una copia, l’orologio a cucù pure, come la vecchia cucina Dove Stove e il grammofono su cui l’adorato
Denys Finch Hutton e l’altrettanto amato Robert Redford ascoltavano Mozart. L’atmosfera c’è, anche se il legno del tetto del cottage viene dall’Uganda, il baule è di Vuitton, la pelle di leopardo è offerta dal National Museum of Kenya. Per respirarla basta vedere la piccola vasca da bagno in zinco e il menù affisso della cena del ’28 con H. E. Edward, principe di Wales: zuppa, prosciutto, spinaci e cipolle cara-
mellate,
macaroni salad
con salsa al tartufo, ossobuco, savarin alla frutta. Karen quando partì era una donna sconfitta, il suo mobilio venne messo all’asta e finì in Sudafrica come il tavolo di noce con otto sedie e la libreria di quercia, anche se qualcosa è stato ricomprato o donato dagli amici come Lady McMillan, americana di Boston, a cui si deve la fondazione della Biblioteca nazionale di Nairobi, e che ha voluto essere seppellita sotto il monte Kilimambogo. Di vero ci sono le lettere di Karen, una datata 20 gennaio 1914: «
A runner is just leaving
». Un corridore sta per partire. Già perché per messaggi e comunicazioni usava i ragazzi Masai, rapidi e veloci, visto che il servizio postale nato a Nairobi nel 1908 serviva solo la città. Gli stessi atleti Masai che poi andranno a vincere le Olimpiadi e a imporsi oggi come grandi mangiatori di fatica nella maratone, capaci di scrivere la storia con piedi e fiato. Loro che portavano lontano le parole di Karen sono stati bravi nell’inventarsi la favola vera di corridori della lunga distanza.
Poi c’è l’eredità letteraria. Settantacinque anni dopo l’Africa cerca altre parole e non resuscita la bianca straniera Karen. Ma se tanti scrittori trovano spazio, cattedre, futuro è perché c’è
stata una scia Blixen. Ngugi Wa Thiong’o, settantaquattro anni, da tempo in gara per il Nobel, romanziere, drammaturgo e saggista, nato a Limuru, in Kenya, uno dei massimi esponenti della letteratura africana, come i nigeriani Wole Soyinka e Chinua Achebe, dopo aver insegnato per un decennio all’università di Nairobi (1967-1977), arrestato e detenuto per le sue critiche alla società keniota postcoloniale, è andato in esilio in Inghilterra e ora vive e ha una cattedra all’università di California.
Ha deciso di scrivere nella nativa lingua kikuyu invece che in inglese. Il suo
Sogni in tempo di guerra,
appena pubblicato da Jaca Book, parla di una crescita, di adolescenza, di repressione, di caccia all’antilope, di libertà, del passaggio da una comunità poligama a una famiglia con un nuovo genitore. Può essere un sogno, ma non è una favola. E su Karen ha idee chiare. «Blixen è bravissima, è una romanziera vera. Sa come tradurre le immagini in parole. Non c’è malizia nei suoi toni e nelle sue intenzioni. Per questo i suoi commenti razzisti e certe
sue riflessioni sono dannose e fuorvianti. Hanno uno stile bello, non sono urlate, ma fanno lo stesso male. Una sua eredità resta: è molto letta nelle nostre scuole e l’area dove viveva fuori Nairobi adesso è diventata la più richiesta e lussuosa. In questo senso fa parte del nostro patrimonio. Ma la sua visione semplicistica e riduttiva del popolo è in contrasto con quella di altri autori. Jomo Kenyatta, futuro presidente
del paese, nel ’38, appena un anno dopo la Blixen, scrive
Facing Mount Kenya.
Sono contemporanei, parlano della stessa comunità e dello stesso panorama. Ma Kenyatta è più complesso, la sua gente chiede di avere indietro le terre che gli europei come la Blixen hanno rubato agli africani. Mentre la società indigena che lei descrive è primitiva e ingenua
».
Karen andò in Africa,
scrisse storie davanti al fuoco, e le narrò al mondo. Oggi è l’Africa che va al mondo e si racconta. Alain Mabanckou, quarantacinque anni, nato a Pointe-Noire, città costiera del Congo Brazzaville, dopo la laurea in Lettere e Filosofia, parte per la Francia dove prende una laurea in Diritto. Nel 2006 vince il premio Renaudot, nel 2010 con
Demain j’aurais vingt ansè
il primo nero ad essere pubblicato nella prestigiosa collana Blanche di Gallimard. Dal suo romanzo
Black Bazar
è stata tratta una pièce teatrale rappresentata al festival di Avignone (2011). Insegna all’università di California a Los Angeles. Il suo pamphlet
Le sanglot de l’homme
noireuscito
in Francia prima delle ultime elezioni presidenziali è stato molto polemico con Sarkozy sul tema della francofonia di colore.
E poi piccole Karen crescono, di taglie e colore diverso. Dentro l’Africa, ma estranee a quella
sua
Africa. Lola Shoneyn, trentotto anni, poetessa, nata a Ibadan, in Nigeria, da una famiglia di origine cristiana, viene mandata in Inghilterra dove trascorre l’infanzia in diversi collegi, torna nel suo paese per studiare letteratura inglese. Ha pubblicato tre raccolte di poesie, nel 2010 con
Prudenti come serpenti,
(66thand2nd editore), che parla di poligamia e del contrasto tra vecchia e nuova menta-lità, è stata inserita nella long list dell’Orange Prize for Fiction in Gran Bretagna. Attualmente insegna in un liceo in Nigeria, è sposata da dodici anni con Olao Kun, figlio di Wole Soyinka, conosciuto via mail, ha quattro figli. Ha avuto un precedente matrimonio coatto durato quaranta giorni appunto perché lei non accettava la poligamia. Dice di non aver mai letto Karen Blixen. «Ma ho visto il film, non sono preparata a dare un giudizio su di lei». E pensare che il tormento di Karen era in fondo la poligamia di Denys. Lui voleva stare anche con le altre, lei solo con lui.