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 2012  luglio 01 Domenica calendario

VESTITI


Contano i vestiti in letteratura, magari non soltanto nel momento in cui questi, dopo più o meno lunga attesa, finalmente cadono? Importa se un personaggio è abbigliato alla moda, con cura, di un colore piuttosto che di un altro oppure in maniera casuale, trasandata? Davvero possono fare la differenza il taglio, la stoffa, la foggia, gli accessori? Sembrerebbe di sì, perché, esattamente come nella vita, con le debite eccezioni, l’abito fa il monaco, parla, cioè, dello status sociale, dell’ambiente, dei gusti di chi lo indossa, fuori come dentro le pagine. A volte nella letteratura i vestiti sono addirittura indispensabili affinché il lettore possa figurarsi i personaggi in tutta la loro presenza e forza. E, infatti, i narratori, numerosi narratori, si sono soffermati sull’abbigliamento, per lo meno su quello dei loro protagonisti. Non tutti, ovviamente, allo stesso modo: chi con un’attenzione particolare, ad esempio, per le scarpe, oppure per i cappelli o, anche, soltanto per i tessuti e i colori. Soprattutto con intenzioni diverse: per caratterizzare un personaggio, per mettere in luce aspetti della sua indole, per sottolinearne la classe sociale, per trasmettere un’emozione.
Nicolaj Vasil’evic Gogol,
Il cappotto
Nicolaj Vasil’evic Gogol, forse perché dalla più soleggiata Ucraina si era trasferito a vivere nella gelida San Pietroburgo, era stato costretto a interessarsi in particolare al cappotto, cui dedicò la famosa omonima novella, e che, se in buona forma, magari con un interno di pelliccia, nel suo scritto merita il distinto appellativo di mantella, se invece in condizione precaria si riduce a miserabile, disprezzata, consunta palandrana. Per qualche anno piccolo burocrate statale egli stesso, il futuro scrittore avrà probabilmente a lungo osservato i colleghi alle prese con mantella, cappotto o pastrano, a seconda della posizione conquistata e dell’ammontare del salario.
Ed ecco l’impiegato Akakij Akakievic, protagonista del racconto, che ben possiamo immaginare, poveramente vestito com’è, alle prese con il gelo di San Pietroburgo. «Da qualche tempo aveva cominciato a sentire dei dolori particolarmente acuti alla schiena e alla spalla… Alla fine si chiese se non ci fosse qualche magagna nel suo cappotto. Esaminatolo per benino a casa sua, scoprì che in due o tre punti, soprattutto sulla schiena e sulle spalle, era diventato proprio una garza; il panno si era talmente logorato da risultare trasparente, e la fodera era tutta sfilacciata. Bisogna sapere che anche il cappotto di Akakij Akakievic era oggetto delle canzonature degli impiegati; gli avevano perfino tolto il nobile nome di cappotto e lo chiamavano palandrana. In effetti, aveva una struttura piuttosto strana: la sua pellegrina si accorciava sempre di più ogni anno, perché serviva a rattoppare le altre parti...».
A proposito della necessità dei vestiti in letteratura, non solo riusciamo a vedere perfettamente il povero impiegato avanzare intirizzito e malcoperto nel glaciale inverno russo, ma senza accurata descrizione del cappotto sarebbe addirittura mancata la stoffa per il racconto!
Alessandro Manzoni,
I promessi sposi
Alessandro Manzoni va più in là e ne I promessi sposi spesso si serve dell’abito per descrivere l’animo. Così il vestito semplicissimo di Lucia rivela la sua innocenza, come quello rustico di Renzo indica la sua irruente e un po’ primitiva energia. Ben diversa è la descrizione dell’abbigliamento di Gertrude, la monaca di Monza, particolarmente attenta: già a prima vista, attraverso la grata del parlatorio, apparirà al frate cappuccino, ad Agnese e Lucia che è lì per chiedere rifugio e protezione, come una suora un po’ insolita. Specchio dell’anima e segno di colpevolezza non sono soltanto — come da tradizione — lo sguardo scuro, la fronte che si aggrotta spesso, certi movimenti inquieti delle mani, una bellezza sbattuta, quasi scomposta, bensì anche il vestito che indossa e come lo indossa.
«Un velo nero, sospeso e stirato orizzontalmente sulla testa, cadeva dalle due parti, discosto alquanto dal viso; sotto il velo, una bianchissima benda di lino cingeva fino al mezzo una fronte di diversa ma non inferiore bianchezza». E fin qui l’abito ancora nulla fa sospettare. Però tre pagine dopo già si capisce con chi il terzetto ha a che fare. «Nel vestire stesso c’era qua e là qualcosa di studiato e di negletto, che annunciava una monaca singolare: la vita era attillata con una certa cura secolaresca, e dalla benda usciva su una tempia una ciocchettina di neri capelli; cosa che dimostrava o dimenticanza o disprezzo della regola che prescriveva di tenerli sempre corti...».
Thomas Mann,
I Buddenbrook
Thomas Mann sembra invece usare gli abiti per inchiodare i suoi personaggi (ne I Buddenbrook) alla classe sociale cui appartengono, senza speranza mai di cambiare. Li veste, li acconcia, li pettina per sistemarli nella loro casella perché tra loro si riconoscano e si distinguano di primo acchito, senza bisogno di fare domande, di parlare, di spiegare. Più che mai presso di lui l’abito fa, dunque, il monaco. Sovente si diletta in lunghe e dettagliate descrizioni di pantaloni e giacche, panciotti e camicie, vestaglie e négligés, senza trascurare il tipo di tessuto né la qualità della fattura, che per lo più lo dispensano da ulteriori spiegazioni. Per comprendere quanto distante, quanto diverso dai nordici, sobri, eleganti Buddenbrook sia il «meridionale» bavarese Permaneder, secondo marito di Tony, basta osservare come egli si presenti per la prima volta in casa della futura sposa.
«Era un uomo di quarant’anni. Tozzo e corpulento, portava una giacca aperta di loden marrone, un panciotto chiaro a fiorellini, che disegnava la morbida curva del ventre, e sul quale brillava una catena d’oro con un mazzo di ciondoli, un’intera collezione di oggettini d’osso, di corno, d’argento e di corallo; i pantaloni di un’indecisa tinta verdastra erano troppo corti e parevano fatti di stoffa straordinariamente dura, perché gli orli inferiori circondavano rotondi e senza pieghe i gambali delle scarpe corte e larghe. … In una delle mani corte, bianche e grasse egli teneva un bastone, nell’altra un cappellaccio verde alla tirolese, ornato d’una barba di camoscio». Tutto lascia prevedere, insomma, che il matrimonio con Tony non durerà.
Giuseppe Tomasi di Lampedusa,
Il Gattopardo
Per Giuseppe Tomasi di Lampedusa la fuggevole impressione di un leggiadro abito femminile — rosa — rappresenta ben altro, e cioè il contrasto tra gioventù e vecchiaia, tra vita e morte, tra eccitate aspettative e definitive disillusioni. Ciò che conta non è come sia vestita la giovane donna del Gattopardo (che altri non è se non Angelica in abito da ballo) bensì la sensazione — di infinita nostalgia e melanconia — che ne trae l’anziano protagonista del romanzo (il principe di Salina) e la conseguente amara riflessione cui si abbandona.
«Angelica e Tancredi passavano in quel momento davanti a loro, la destra inguantata di lui posata a taglio sulla vita di lei, le braccia tese e compenetrate, gli occhi di ciascuno fissi in quelli dell’altro. Il nero del frac di lui, il roseo della veste di lei, frammisti, formavano uno strano gioiello. Essi offrivano lo spettacolo più patetico d’ogni altro, quello di due giovanissimi innamorati che ballano insieme, ciechi ai difetti reciproci, sordi agli ammonimenti del destino, illusi che tutto il cammino della vita sarà liscio come il pavimento del salone, attori ignari cui un regista fa recitare la parte di Giulietta e quella di Romeo nascondendo la cripta e il veleno, di già previsti dal copione».
Straordinaria forza evocatrice di un frac nero affiancato a un vestito rosa; e pazienza se con gli anni gli si è sovrapposto nella fantasia quello bianco del film di Luchino Visconti.
Marisa Madieri,
Verde acqua
Infine, l’abito come strumento della memoria. Si sa che nulla come un vestito, una stoffa, un paio di scarpe, anche solo un bottone — al pari di una musica o di un odore — riesce a restituirci, ben presenti e vivi, volti, sensazioni, persone, luoghi, avvenimenti e sentimenti sepolti nel passato. Marisa Madieri in Verde acqua ne dà un esempio struggente.
«La mamma portò al Monte di Pietà, come aveva fatto altre volte, il suo braccialetto di metallo bianco e giallo e la sua pelliccia, probabilmente di coniglio, tutta consunta. Ciò le permise di comperarmi una gonna a campana e un completo formato da un cardigan e una maglia a giro collo, in orlon color verde Nilo. Conservai quel completino per anni, con gelosia, anche se purtroppo il tessuto di fibra sintetica, con le lavature divenne sempre più lungo e più largo».
Il colore di un vestito — il verde acqua — che si trasforma, grazie alla rievocazione letteraria, in colore dell’amore.