Guido Vitiello, la Lettura (Corriere della Sera) 1/7/2012, 1 luglio 2012
PICASSO FECE A CUBETTI LA BELLEZZA E NELLA MISTICA MOSCA FU UNO CHOC
Attenzione al cubismo: preso troppo alla lettera — nel senso di fare a cubetti — può portarvi dritti in prigione: «Juan Gris, il cubista spagnolo, aveva convinto Alice Toklas a posare per una natura morta e, con la sua tipica concezione astratta degli oggetti, cominciò a scomporne il viso e il corpo in figure geometriche elementari fino a quando arrivò la polizia ad arrestarlo». D’accordo, le Memorie degli anni Venti di Woody Allen sono una fonte alquanto apocrifa, ma chi cerchi pagine più autentiche sul legame tra cubismo e crudeltà può leggere due saggi russi del primo Novecento riuniti sotto il titolo Il cadavere della bellezza (Medusa edizioni, traduzioni di Graziano Lingua e Giampaolo Mussi). L’occasione è questa: alla galleria Scukin di Mosca, nel 1914, s’inaugura una mostra del giovane artista spagnolo Pablo Picasso. Tra i visitatori, un teologo ortodosso, Sergej Bulgakov, e un esistenzialista cristiano, Nikolaj Berdjaev. Ne escono entrambi sotto choc.
Bulgakov annota le sue impressioni in un saggio pubblicato l’anno successivo: «Picasso con il suo tocco offende l’Eterno Femminino e lo oltraggia». Quei corpi di donna scomposti nei loro elementi primi gli paiono una bestemmia, un peccato contro la Sofia, l’Anima del mondo, la forma divina della creazione che si era manifestata a Bulgakov nelle vesti della Madonna Sistina di Raffaello, segnando la sua conversione dal marxismo all’ortodossia. «Nei quadri di Picasso emerge un oltraggio indicibile perpetrato proprio a questo "Femminino", ridotto a un corpo mostruoso, sformato, corrotto, in decomposizione; sarebbe meglio dire che ci troviamo di fronte al cadavere della bellezza».
Eppure, Bulgakov si accorge di avere a che fare con un artista di forza sovrumana, un mistico capovolto, gli sembra che a impugnare il pennello sia uno dei Demoni di Dostoevskij: «Se Stavrogin avesse dipinto, ne sarebbe risultato qualcosa del genere di Picasso». L’essenza del cubismo è affine al sadismo: «Nel cubismo, tutto, persino gli esseri viventi, diventano cose decomposte, muoiono e si disgregano». Come Dostoevskij davanti al Cristo morto di Hans Holbein — un cadavere qualunque da obitorio, che non annuncia nessuna resurrezione — così davanti alle spoglie brutalizzate della Sofia, al cadavere della bellezza, Bulgakov sente la sua fede vacillare.
E l’altro visitatore della galleria Scukin, Nikolaj Berdjaev? Ne scrive alla fine del 1917, nel momento capitale della storia russa, come ricorda Marco Vallora nella postfazione. Il saggio di Berdjaev descrive la crisi dell’arte divisa tra due spinte contrastanti. La prima tende alla sintesi, e si rivela nell’«opera d’arte totale» di Wagner o di Skrjabin; la seconda, incarnata dal cubismo, spinge all’analisi, dunque alla scomposizione, che è quasi sinonimo di decomposizione: «Sembra che dopo il tremendo inverno di Picasso il mondo non rifiorirà più come prima (…). Si compie una sorta di misterioso sfaldamento del cosmo». Dietro la bellezza femminile, come nelle Vanitas secentesche, Picasso «vede l’orrore della decomposizione, della polverizzazione». Da quale forza è posseduto? Non già dai demoni dostoevskiani di Bulgakov, ma dallo spirito della meccanizzazione, della civiltà industriale.
Sono argomenti che torneranno, in tutto il Novecento, alimentando la critica dell’arte moderna, da Hans Sedlmayr a Titus Burckhardt a Jean Clair. Ma torneranno sempre più come una maniera, se non proprio come posa da esteti: mai con la forza e il dolore di questi due saggi. La Russia dei teologi e dei mistici, d’altro canto, offriva la specola ideale per osservare l’arte moderna dai suoi antipodi. In nessun altro luogo alla Bellezza era stato assegnato un compito così alto, salvifico e teologico, e in nessun altro luogo la Madonna Sistina che aveva folgorato Bulgakov aveva suscitato un tale dibattito teologico e letterario.
Meditò su quel dipinto anche un amico comune di Bulgakov e Berdjaev, il mistico e scienziato Pavel Florenskij, lo stesso che per la Sofia — «la bellezza sussistente di tutto il creato» — aveva scelto nel 1914 un motto che è la negazione stessa del cubismo: Omnia conjungo, «Ogni cosa congiungo». Sarebbe l’epigrafe ideale per Il cadavere della bellezza.