Hans-Ulrich Obrist, la Lettura (Corriere della Sera) 1/7/2012, 1 luglio 2012
NON SCRIVERÒ PIÙ ROMANZI
Il mio mondo è l’arte, faccio il curatore, sono interessato al collegamento tra arte e letteratura. Dunque è meglio cominciare dall’inizio: come è arrivata alla letteratura? Ha avuto qualche tipo di rivelazione?
«Scrivo da quando avevo nove anni. È stata una cosa naturale, come quando si diventa cantanti perché si nasce con corde vocali particolari. Diventiamo scrittori perché c’è qualcosa, dentro di noi, che ci rende tali».
Nel campo delle arti visive, quando si prepara il catalogo completo di un pittore, l’artista fa sapere che alcune opere appartengono alla fase di apprendistato, e indica invece quella che va considerata la numero uno, che segna l’inizio del suo lavoro.
«Non credo che sapere come si inizi a scrivere possa interessare. Bisogna leggere i libri. Sono loro il centro dell’interesse».
Non pensavo tanto alla sua vita personale, ma a chiederle — come per un pittore — qual è stata l’opera prima dalla quale è partito il suo catalogo?
«Ho scritto quindici romanzi e quattordici raccolte di racconti. Dovrei andare a guardare qual è stato il primo libro di racconti, pubblicato all’inizio degli anni Cinquanta. Mi pare che sia Six Feet of the Country».
Allora quello è stato l’inizio. A chi si ispirava?
«Ho cominciato a leggere verso i sei anni. Prima era mia madre che mi leggeva le storie, poi mi ha iscritto alla biblioteca locale per bambini. Dato che era amica della bibliotecaria potevo prendere anche i libri per adulti; uno dei primi di cui ho scoperto i racconti è stato il grande scrittore inglese D. H. Lawrence. Poi Cechov, Maupassant, e così via».
E scrittori sudafricani che l’hanno ispirata?
«Erano miei contemporanei, non si trattava di ispirazione. Ma di trovare un senso nella vita. Per me scrivere è un viaggio di scoperta; poi lungo la strada si incontrano altri. Qui non c’erano molti scrittori. Solo Olive Schreiner. Ammiro molto il suo romanzo, Storia di una fattoria africana».
Il fotografo David Goldblatt mi ha detto che è stato grazie a lei che ha capito di poter fotografare il Sudafrica. Aveva sempre letto romanzi su Londra e New York, e quando ha letto lei, ha capito che ci poteva essere una letteratura sudafricana.
«E ci potevano essere anche delle fotografie. Beh, Goldblatt è un caro amico e probabilmente le ha detto che ho avuto il privilegio di scrivere i testi per due dei suoi libri».
Che cosa l’ha spinta all’inizio a scrivere del Sudafrica? È stata una cosa naturale?
«Come avrebbe potuto essere altrimenti? Sono nata e cresciuta qui, era il mio ambiente. Ci si forma osservando ciò che abbiamo intorno, che sia Timbuctu, Berlino o Londra; questo è il guscio che ci sta attorno. Naturalmente non si vorrebbe avere un guscio, si vorrebbe uscirne. Ma questo viene poi».
Non ha mai pensato di andarsene?
«Per quale ragione? Sono sempre stata attiva contro l’apartheid. Tre dei miei libri sono stati banditi e forse allora ci si poteva chiedere perché volessi rimanere in un Paese dove la mia gente non poteva leggere i miei libri. Ma facevo parte dell’opposizione all’apartheid e non volevo andarmene. Ero sposata con Reinhold Cassirer, che era passato attraverso il nazismo in Germania, ebreo tedesco di un’importante famiglia. Capiva perfettamente quali erano le conseguenze per chi si oppone alla dittatura. Fortunatamente eravamo d’accordo di rimanere e fare del nostro meglio per opporci».
Ha mai disegnato o dipinto?
«No, temo di non avere alcun talento in questo campo. A scuola facevo qualcosa, ma ho capito che non era per me».
Spesso gli scrittori fanno schizzi a mano libera...
«Come Günter Grass, lui è un grande artista. La gente non lo sa. Mi ha mandato un autoritratto eseguito nei mesi in cui finì attaccato per le rivelazioni sul suo passato: c’è un cactus che gli punge il viso. Ha molto talento, anzi, più che talento. È un genio, e io non uso questa parola con leggerezza».
Niente disegni, ha magari dei manoscritti?
«No, perché quando avevo tredici anni ho messo da parte le paghette e mi sono comprata una piccola macchina da scrivere Hermes. La prima di molte».
Adesso usa il computer?
«Ne ho appena comprato uno. Sono stata molto fedele alle mie due macchine da scrivere elettroniche Olivetti, le ho amate molto, ma ora non fanno più i nastri e così mi sono dovuta comprare un computer».
In primavera è uscito il suo ultimo libro. Me ne può parlare? Di che cosa tratta?
«Di nulla in particolare. È ambientato in Sudafrica, ai nostri giorni. Si intitola No time like the present. Ha un doppio significato perché c’è un signore anziano che, come molti della sua generazione, dice a un bambino che non vuole mettere in ordine la stanza: meglio fare una cosa oggi che domani. È un monito e al contempo un commento sul periodo in cui è ambientato il romanzo, cioè il presente, il post apartheid».
È ottimista sul momento attuale?
«Siamo in un mare di guai. Ci sono continue rivolte, gli operai di industrie e miniere pensano giustamente di essere pagati troppo poco, e questi scioperi sono preoccupanti perché portano alla violenza. Ma continuo a dirmi che ci siamo liberati dell’apartheid da nemmeno diciotto anni. Non è passata neanche una generazione... Voi in Europa avete avuto cento e più anni di democrazia e non avete ancora raggiunto una completa eguaglianza. Penso che se noi, in Sudafrica — la grande massa dei neri e quelli tra i bianchi che hanno preso parte alla lotta contro l’apartheid come Joe Slovo e sua moglie — siamo riusciti a sconfiggere il regime dell’apartheid, dovremmo essere capaci di creare una vita migliore, di tradurre in realtà quelle promesse. Ma abbiamo ereditato dal passato problemi di ogni genere, che non immaginavamo. Quando si combatte contro un nemico comune come l’apartheid, non si pensa al dopo, a quando si avrà vinto. Ora è il giorno dopo».
Continua a scrivere racconti?
«Sì, nei momenti liberi, butto giù una mezza frase ogni tanto mentre lavoro a un romanzo».
Scrive ogni giorno?
«Di solito sì. Scrivo da una vita. Uso la mattina, ho avuto bambini che andavano a scuola e anche dopo ho mantenuto questa routine. Ho amici che scrivono di notte. Ognuno ha le sue abitudini, ma bisogna avere disciplina».
Ha progetti o sogni che non è riuscita a realizzare? Glielo chiedo perché qualche mese fa Doris Lessing mi ha detto che a suo avviso i romanzi non scritti, perché non ne ha avuto il tempo o perché c’è stata un’autocensura, hanno comunque un significato.
«No, ho sempre scritto quello che volevo senza paura e senza reticenze, anche durante l’apartheid. È terribile quando un libro viene vietato. Scrivo in una lingua che si parla e si stampa in tutto il mondo, ma uno scrittore vuole essere letto dalla gente del suo Paese».
Nelle interviste lei parla spesso di Nelson Mandela. L’ha conosciuto molto tempo fa, continuate a sentirvi?
«Certo. L’ho incontrato il giorno dell’anniversario della sua liberazione dal carcere. Ora non vede quasi nessuno, ma George Bizos, che è stato il suo avvocato, è un amico: sono andata a trovarlo con lui e siamo stati da Mandela per un’ora».
Lei è stata una delle prime persone che ha voluto vedere dopo la liberazione, l’11 febbraio 1990.
«Sì, è stato un grande privilegio. Gli portarono in carcere di nascosto il mio libro La figlia di Burger e lui mi scrisse una lettera, che venne anch’essa recapitata di nascosto. Credo che sia uno dei miei due romanzi migliori. Forse il migliore».
Anche «Il conservatore» è un capolavoro.
«Ha anticipato i tempi sulla questione di chi debba possedere la terra. Narrava di un uomo che la voleva per sé. Al giorno d’oggi questo sarebbe poco probabile, perché in Sudafrica c’è una regola per cui gli africani possono reclamare la terra che gli è stata portata via senza alcun accordo o compenso».
Questo libro anticipa i tempi anche per la visione della natura. «Il conservatore» cerca di conservare la natura e, per lui, questo significa conservare il sistema dell’apartheid. Questi parallelismi sono molto interessanti.
«E c’è un aspetto simbolico. Solo ora capisco che l’uomo nero e sconosciuto che viene sepolto tra le canne del fiume è un simbolo. Quando il fiume è in piena il corpo emerge. Allora non ci pensavo, ma adesso capisco che si tratta di un simbolo: quel corpo non è rimasto sepolto per sempre, è tornato a reclamare il suo posto».
Quando scrive un romanzo ha uno schema in mente?
«Ho un inizio e una fine, ma non so come dall’uno arriverò all’altra. Procedo per fasi. Spesso mi chiedono che differenza ci sia tra scrivere un romanzo e scrivere racconti. Per me il racconto è come un uovo, un’unità compatta: il guscio, il bianco e il tuorlo al centro. Nel caso del romanzo procedo un passo dopo l’altro e a volte può succedere che cambi strada per arrivare al punto successivo».
«La figlia di Burger» parlava di questioni politiche molto concrete.
«È per questo che è stato vietato».
Conosceva Bram Fischer, l’avvocato a cui il libro in un certo senso rende omaggio?
«Sì. Faceva parte del piccolo ma significativo gruppo di bianchi che si opponevano all’apartheid. Ero molto interessata a vedere che effetto aveva questo sulla cosiddetta vita familiare normale, come crescevano i figli in quello straordinario ambiente in cui uno era in esilio, un altro in carcere e dove c’erano ragazzini che si prendevano cura dei loro fratelli».
In questo senso il personale diventa politico.
«Già. Penso che succeda anche in altri Paesi dove ci sono situazioni di conflitto. Mi chiedono se sono una scrittrice politica. Non lo so. Lo scrittore politico è un bravo giornalista o chi scrive un bel saggio, ma a me interessa l’essere umano, con quella mescolanza di emozioni e desideri normali e l’impulso ad agire all’interno delle circostanze politiche. Le due cose diventano una, c’è una sintesi».
È per questo che i romanzi possono sfidare i secoli.
«Vorrei consigliarle il libro di uno scrittore sudafricano nero, Mongane Wally Serote, Scatter the ashes and go. Molti hanno scritto della loro esperienza in tempi di lotta, nessuno lo ha fatto come lui: ci mostra che anche quando si è nei deserti dell’Angola o nelle foreste, dove si può essere uccisi o uccidere ogni giorno, tra le persone che vivono insieme sorgono gelosie, contrasti, litigi, proprio come nella vita normale. Il grande cameratismo che nasce dal pericolo e dalla dedizione a una causa non modifica del tutto le relazioni umane».
Quando penso a «La figlia di Burger», «Il conservatore» e molti altri, mi viene in mente Goya con i suoi quadri di guerra, una guerra del suo tempo, che si può collegare a quella in Iraq di oggi, alla Libia...
«O a quel che sta succedendo oggi in Siria».
Il romanzo «Luglio», che non è un libro di fantascienza, ma è ambientato nel futuro, si collega in parte a Nelson Mandela, perché se non ci fosse stato lui, forse in Sudafrica ci sarebbe stata una rivoluzione cruenta.
«Sì, eravamo sull’orlo di un precipizio. A indurmi a scriverlo era lo stato in cui si trovava il Paese allora e il modo in cui colpiva la mia coscienza. Vorrei consigliarle un altro libro, una raccolta di racconti di Njabulo Ndebele, pure sudafricano, che si intitola Fools. È uno scrittore meraviglioso».
Che cosa è cambiato per lei, dopo che Mandela è uscito di prigione e la situazione è andata mutando?
«I miei romanzi hanno sempre riflesso le diverse situazioni, il modo di essere della gente, quel che pensava, quel che ci stava accadendo. Prima l’apartheid, poi il grande evento, la Costituzione e la creazione della Corte costituzionale. E ora vediamo l’ombra dell’apartheid aleggiare di nuovo su di noi con questo terribile Protection of State Information Bill (un atto legislativo che regola l’accesso alle informazioni)».
Con l’apartheid c’era violenza, ma ora c’è una nuova forma di violenza.
«Sfortunatamente la violenza è entrata nel nostro Dna, fa parte della nostra tradizione».
Pensa che siano stati gli anni dell’apartheid a produrre questo risultato?
«Sì, e non solo quelli, ma l’intera storia del colonialismo. L’apartheid, anche se non si chiamava così, ha avuto inizio nel 1652, quando la prima nave olandese è approdata qui. Questo è stato l’inizio del colonialismo. Prima gli olandesi, poi gli inglesi e tutti gli altri; pure i francesi per un breve periodo. Grazie a Dio ci hanno anche portato il vino».
Amo molto anche il suo romanzo «Un’arma in casa». È il secondo dopo la fine dell’apartheid. In esso sembra che la violenza sia strutturale, sia quasi inscritta nel sistema.
«No, è scritto più tardi, è un romanzo del presente. Avere un’arma in casa è come avere un gatto, qui tutti ce l’hanno. È terribile. Sono ovunque. Ora se la gente sciopera, tra chi sciopera e chi ritorna a lavorare si scatenano degli scontri a fuoco. È successo poche settimane fa, era sui giornali».
Da dove prende le sue storie? Fa ricerche?
«Non faccio ricerche. Controllo i fatti. Se parlo di un evento reale, come un processo, vado a controllare come si è effettivamente svolto. Per il resto, tutto viene da me, da interessi e percezioni. Una volta Graham Greene mi ha detto una cosa molto bella. Stavamo parlando di interviste. Lui era molto famoso e gli chiedevano continuamente quali erano le fonti dei suoi romanzi. La sua risposta è bellissima. "Spiego alle persone — mi ha detto — che lo scrittore è ispirato da un evento qualsiasi, magari da una coppia che gli siede accanto sull’autobus, da quel che dicono o che esprimono con il linguaggio del corpo, che è anche più eloquente. Ne è incuriosito e crea una vita alternativa per queste persone. Non sa chi sono, non ne conosce il nome, non li segue fino a casa, ma crea una vita alternativa da quello che hanno indosso, da come si muovono o parlano". Questo vale anche per me».
Una volta lei ha detto che nulla di quel che ha scritto in saggi e articoli è vero quanto quel che c’è nei romanzi.
«Beh, i fatti sono una cosa... e in questo assistiamo a una grande rivoluzione, basta andare su Internet e si hanno tutte le informazioni. Ma l’informazione non è la verità, è un fatto. Lo scrittore deve andare oltre e dentro il fatto».
Adesso che è uscito un suo nuovo romanzo ne comincerà un altro?
«Credo che probabilmente non scriverò più romanzi, sono troppo vecchia. Non scuota il capo! Deve pensare alla quantità di energia e concentrazione che occorre. Ho visto casi abbastanza tristi di scrittori il cui ultimo romanzo non valeva molto. Sono ancora in grado di capire se quel che scrivo è buono o no. Potrei fare una cosa più breve, un racconto».
Scrive poesie?
«Non l’ho più fatto da quando avevo 9 anni. Non ho quel tipo di talento».
La poetessa Etel Adnan dice che il mondo ha bisogno di più amore. È d’accordo?
«Sì. Penso che l’amore sia una cosa del tutto speciale... La tolleranza è la migliore forma di amore. È di questo che abbiamo bisogno, più di ogni altra cosa. Chi è totalmente diverso da noi ha il diritto di affermare le sue ragioni e vivere la vita a modo suo. Prendiamo il giovane politico Julius Malema: alcune cose che dice, le sue idee, sono necessarie, ma lui le trasforma in odio personale, diventa offensivo e violento».
L’African National Congress Youth League di cui Malema, ora espulso, faceva parte, è molto reazionaria.
«Ma no, non penso sia reazionaria. Ne ha fatto parte anche Mandela. È importante stimolare il governo e l’opinione pubblica, perché la maggioranza nera non ha ancora ottenuto l’uguaglianza, le stesse opportunità e gli stessi standard di vita. È passato troppo poco tempo, ma questo non può essere una giustificazione per aver fatto così poco».
Pensa che la letteratura possa cambiare il mondo?
«È una domanda impegnativa. Penso che gli scrittori veramente grandi abbiano avuto qualche influenza sul mondo, sulle persone che ne sono alla guida».
Una volta lei ha citato Camus: «Quando sarò soltanto uno scrittore, smetterò di scrivere», nel senso che lo scrittore deve essere un essere umano.
«Penso sia vero. Le persone nate in una situazione di conflitto, come me e molti altri, non devono nascondersi nella loro torre d’avorio. Non esiste nessuna torre».
Lei dice di essere un’ottimista realista, come vede il futuro?
«Posso ripetere che se siamo riusciti a sconfiggere l’apartheid, anche se il mondo occidentale lo sosteneva con denaro e armi, riusciremo anche a sconfiggere quegli aspetti dell’apartheid che oggi sfortunatamente riaffiorano».
Quale consiglio dà a un giovane scrittore?
«Leggere, leggere, leggere. Non per copiare o cercare di emulare un altro scrittore, ma per rendersi conto di quanto sia grande il potere della parola. Questo è il mio consiglio, e non andare alle scuole di scrittura creativa».
Lei ha anche detto, a proposito del gap generazionale, che la verità si può ricostruire solo partendo da tanti brandelli di conoscenza, impressioni diverse, esperienze, e che in questo modo si produce qualcosa di nuovo.
«Perché credo che ci sia sempre qualcosa da scoprire in questa misteriosa creatura che è l’essere umano».
(Registrazione trascritta da Marilyn Tambling
Traduzione di Maria Sepa)