Paolo Foschini, la Lettura (Corriere della Sera) 1/7/2012, 1 luglio 2012
LOMBROSO, IL MUSEO DELLA DISCORDIA
A volte ritornano: in principio fu Scilipoti. E diciamo subito che l’argomento sarebbe davvero troppo serio per scherzarci, ma il fatto è che a volte le combinazioni di Google sono irresistibili: cosa c’entra cioè Cesare Lombroso, quello della fisiognomica e del «delinquente nato», l’ottocentesco trafugatore-misuratore-collezionista di «teschi di briganti» con l’indimenticato Domenico ex dipietrista folgorato da Silvio? Eh: c’entra.
(Anche) a lui infatti si arriva risalendo la polemica in corso ormai da qualche anno, e periodicamente riattizzata come ora, sul «Museo di antropologia criminale» di Torino intitolato appunto a Cesare Lombroso. Polemica dai numerosi protagonisti tra i quali spicca — con un sito Internet che li raccoglie un po’ tutti — il comitato «No Lombroso» presieduto dall’ingegner Domenico Iannantuoni, la cui posizione in sintesi è la seguente: quel museo è apologia implicita di razzismo, perpetua la discriminazione dei meridionali, espone resti umani che andrebbero seppelliti, così com’è non può andare avanti. La risposta dell’Università di Torino, attraverso lo storico Silvano Montaldo da cui il Museo è presieduto, è da anni pazientemente la stessa: «Questo museo racconta cosa è stata l’antropologia criminale, l’importanza che ebbe a livello internazionale, ma anche gli errori scientifici su cui era fondata, e invita a riflettere tanto sui meriti quanto sui rischi della cultura scientifica che sta alle origini del mondo contemporaneo. Altro che apologia». Ma andiamo con ordine.
Nata nel 1859 come raccolta privata del suo «materiale di studio» — allora soprattutto crani e cervelli, messi da parte quando era medico dell’esercito piemontese — la collezione di Cesare Lombroso si ampliò sempre più non solo con una infinità di scheletri e altri resti umani ma anche oggetti, strumenti, scritti, fino alla prima apertura pubblica in occasione dell’Esposizione generale italiana del 1884: allestimento poi divenuto permanente nel 1896 all’Istituto di medicina legale dell’Università. Alla sua morte nel 1909 il Museo, al quale Lombroso donò il suo stesso scheletro, fu portato avanti dal genero Mario Carrara e fu chiuso negli anni 30 allorché questi, a sua volta docente ebreo come il suocero, si rifiutò di giurare fedeltà al fascismo. E saltiamo al 2009: quando la stessa Università lo inaugurò di nuovo — depurato dei «reperti» più impressionanti quali feti, nell’ambito di un progetto che comprendeva anche quelli di «Anatomia umana» nonché «Antropologia ed etnologia», riuniti nel complesso dei «Musei universitari» guidati da Giacomo Giacobini.
«Pezzo forte» dell’esposizione, tra le centinaia esposte, è da sempre considerato per asserzione dello stesso Lombroso il cranio di Giuseppe Villella: un calabrese di Motta Santa Lucia, in provincia di Cosenza, arrestato per brigantaggio, sulla cui fronte Lombroso ritenne di riconoscere — facendone l’autopsia nel 1872 — quella «fossetta occipitale mediana» che a suo avviso chiariva una volta per tutte «il problema della natura del delinquente che doveva riprodurre ai nostri tempi — parole del positivista veronese — i caratteri dell’uomo primitivo giù giù fino ai carnivori». Epigoni e discepoli di Lombroso, come quel tale Alfredo Niceforo che pure era un siciliano, spinsero le osservazioni del «maestro» più in là arrivando per esempio a scrivere che «la razza maledetta che popola il Mezzogiorno dovrebbe essere trattata col ferro e col fuoco come le razze inferiori dell’Africa e dell’Australia». Vabbè, no comment.
Senonché, già all’indomani della sua riapertura, il Museo di antropologia criminale lombrosiano si era ritrovato oggetto di contestazioni. Un medico casertano, Michele Iannelli, nella primavera del 2010 si mise alla testa di un gruppo Facebook che organizzò una marcia a Torino per invocarne la chiusura. E nel luglio dello stesso anno, eccolo là, arrivò Scilipoti con addirittura tre interrogazioni parlamentari per chiedere, nell’ordine, se non la chiusura almeno il ritiro dei resti umani; la cancellazione di tutte le vie italiane tuttora intitolate a Lombroso; la restituzione della testa di Villella al suo Comune di nascita. Un sacerdote di Napoli, don Antonio Loffredo, si offrì di dar sepoltura a tutti gli altri resti umani anonimi nel cimitero delle Fontanelle nel rione Sanità. Intanto un libro di Pino Aprile significativamente intitolato Terroni spostava ancor più la polemica su un terreno politico: quel museo, è la tesi che lo percorre, dà una copertura pseudoscientifica all’antimeridionalismo della Lega.
E siamo a oggi con una lettera che l’ingegner Iannantuoni — ultima di una lunga serie — ha appena scritto al sindaco di Cosenza, Mario Occhiuto, per chiedergli di pretendere a sua volta la restituzione dei resti del povero Villella. Ma con un duplice passaggio argomentativo in più. Da una parte la reiterata contestazione, di natura etica, della legittimità di esporre al pubblico resti umani. Dall’altra la manifestazione di un obiettivo più generale: e cioè la «promozione di un disegno di legge per la messa al bando della memoria di uomini colpevoli, direttamente o indirettamente, di delitti connessi con crimini di guerra o di razzismo». Assunto particolare, per così dire, se non altro perché preso alla lettera dovrebbe portare al divieto di visitare Auschwitz, o a eliminare l’antica Grecia dai libri di storia in quanto civiltà schiavista, e chi più ne ha più ne metta. E infatti Iannantuoni, interpellato sul punto, chiarisce: «Non chiediamo la chiusura del museo, basterebbe sostituire i resti anatomici con calchi in gesso o cera. E soprattutto bisognerebbe che venisse specificato meglio che le teorie di Lombroso erano infondate».
Il direttore Montaldo però a questa lettura delle cose e di un museo «apologetico» non ci sta neanche un po’. «Figuriamoci se il museo Lombroso si presta a questo genere di equivoci. È un museo degli "errori", certo: ed è chiaramente spiegato. Ma è anche la testimonianza di un momento della storia scientifica che va considerato nel suo contesto: come è giusto che sia. Quanto ai resti umani, perché di resti anatomici e non di corpi stiamo parlando, la materia è regolata da precise disposizioni di legge e il museo le rispetta al cento per cento: peraltro l’Italia e il mondo sono pieni di musei anatomici aperti al pubblico, e per fortuna nessuno si sogna di chiederne la chiusura». Come quello dell’Università di Modena e Reggio Emilia, che di donne (intere) mummificate nell’Ottocento ne espone addirittura tre. «Il punto è — chiude Montaldo — esclusivamente politico: le polemiche contro il museo Lombroso sono pretestuose da parte di chi usa solo argomenti, questi sì, pseudoscientifici per distruggere il Risorgimento».