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 2012  luglio 03 Martedì calendario

QUANDO NAPOLI ERA LA GERMANIA D’ITALIA

Chissà se la cancelliera tedesca Angela Merkel, prima di cassarli, per ora, dall’agenda europea con il suo "Nein", ha avuto il tempo di leggere lo studio di Stephanié Collet sul precedente storico che più si avvicina agli eurobond. Se lo ha fatto, ha avuto un motivo in più per opporsi alla proposta di Mario Monti. Perché quel precedente è l’unificazione del debito sovrano dei sette Stati che 150 orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d’Italia.
Nella storia dello Stato moderno - sostiene Collet, storica della finanza dell’Université Libre de Bruxelles - quella del Regno d’Italia è l’esperienza che più si avvicina al faticosissimo tentativo di dare consistenza politica all’euro attraverso l’integrazione dei debiti sovrani dei 17 paesi membri. Un precedente prezioso, dunque, per cercare di capire come potrebbero (meglio, avrebbero potuto) comportarsi i mercati finanziari di fronte all’unificazione del debito dell’Eurozona.
«Come l’Italia di allora, l’Europa oggi è fatta da Stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa.
Grazie al fatto che dopo l’unificazione i titoli del Regno d’Italia quotati alle Borse di Parigi e di Anversa conservarono fino al 1876 l’indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro imponente: 27 anni di quotazioni, prima e dopo l’Unità, per 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio.
Ed ecco la sorpresa: quelli del Regno delle Due Sicilie (un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno (lo spread!) delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che erano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete.
A voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli - economicamente - era per l’Italia quello che oggi la Germania è per l’Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell’integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l’economia più forte dell’Eurozona e beneficia del costo del debito più basso» scrive Collet nella ricerca. Considerazioni, queste, che hanno suscitato l’interesse fortissimo dei lettori del nostro sito. Certo non possono essere considerate affermazioni di parte e scaturiscono da uno studio molto approfondito. «Napoli - ricorda Collet - era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d’Italia». E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un’agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali.
Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di rendimenti più bassi. Quello che la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l’anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d’Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy - Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per ripiegare dopo il 1871, quando cioè l’annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale convinsero gli investitori, e non solo, che l’Unità era ormai irreversibile. L’Italia non era più una mera «espressione geografica», come l’aveva definita Metternich nel 1847, ma era diventata uno stato unitario. «L’integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l’integrazione politica, come sarebbe oggi per l’Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l’Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Non si sbagliava, dunque, la Collet a definire «remote» già nei mesi scorsi le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell’Eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Allora ci volle un decennio. Oggi i tempi potrebbero essere più brevi?