Sergio Romano, Corriere della Sera 3/7/2012, 3 luglio 2012
SENTENZA DI POMIGLIANO PIÙ DANNI CHE VANTAGGI
La decisione dei giudici del Tribunale di Roma che impone alla Fiat la riassunzione di 145 dipendenti a Pomigliano, qualora venisse confermata in appello, non farebbe altro che accelerare l’abbandono della società dall’Italia. Dovunque sia impegnata fuori dall’Italia, Fiat riceve onorificenze, facilitazioni negli investimenti e può vantare notevoli successi commerciali. Da noi è sopportata come una intrusa, incalzata da sindacati e magistrati e penalizzata dai consumatori, 3/4 dei quali preferiscono acquistare vetture straniere. Possibile che politici, sindacati, lavoratori, opinione pubblica non si preoccupino?
Mauro Lanzavecchia
attiliolucchini@hotmail.it
Caro Lanzavecchia,
L a materia del processo, nella causa promossa da un gruppo di dipendenti della Fiat di Pomigliano, era la discriminazione. Toccava al giudice accertare se l’azienda avesse deliberatamente deciso di eliminare i soci di un sindacato (in questo caso la Fiom) dalla lista di coloro che aspiravano all’assunzione. La sentenza di primo grado sostiene che vi è stata discriminazione, ma l’azienda ha deciso di ricorrere in appello e vi sarà dunque un secondo giudizio. Sin qui, nulla da obiettare. La discriminazione è un reato, il giudice è tenuto ad accertarne l’esistenza e il suo giudizio può essere contestato in un’altra sede. Così funziona uno Stato di diritto.
Il vero problema, se mai, è quello della pena che il giudice può infliggere all’azienda se la ritiene colpevole. Nel caso di cui parliamo il Tribunale di Roma ha deciso che la pena debba consistere nell’assunzione di 145 soci della Fiom e ha fissato questa cifra sulla base della percentuale dei membri di questo sindacato (8,75%) che lavoravano a Pomigliano prima di una crisi da cui l’azienda è uscita considerevolmente ridimensionata. Come ha scritto Luigi Salvia sul Corriere del 22 giugno, la sentenza ritiene che occorresse rispettare questo rapporto anche per le duemila assunzioni fatte dopo la ripresa della produzione. «Non si tratta — si legge nella sentenza —del riconoscimento di una quota di riserva in favore degli iscritti al sindacato, ma dell’unico strumento (...) idoneo a rimuovere gli effetti dell’accertata discriminazione».
Questa giustificazione non mi sembra convincente e opportuna per alcune ragioni. In primo luogo il giudice diventa così il custode e il garante degli equilibri sindacali di un’azienda in un dato momento; come se quegli equilibri non dovessero dipendere dalla concorrenza fra i sindacati e dalle scelte dei singoli dipendenti. In secondo luogo l’identità sindacale diventa più importante dei criteri con cui l’azienda sceglie i propri collaboratori: una formula molto simile a quella adottata dai partiti per collocare i loro simpatizzanti nelle aziende e nelle amministrazioni pubbliche. In terzo luogo la sentenzia priva i proprietari del diritto di scegliere i loro collaboratori. La formula può piacere forse a coloro che non credono nella proprietà privata, ma avrà certamente l’effetto di spaventare chiunque prenda in considerazione la possibilità d’investire il proprio denaro nelle aziende italiane.
Per concludere, caro Lanzavecchia, il reintegro può essere giustificato nel caso di una discriminazione individuale, ma produce, nel caso di una reintegrazione collettiva, più danni che vantaggi. Se vi è stata discriminazione esiste un’altra pena, quella pecuniaria, che sembra, nel caso di un’azienda, particolarmente indicata.