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 2012  luglio 03 Martedì calendario

SE IN MAGLIA AZZURRA L’EMOZIONE È PIÙ FORTE


AirBus Alitalia, pomeriggio. Gli azzurri sono saliti con le famiglie. L’allegria dei bambini è contagiosa e mette di buon umore un po’ tutti. Però gli occhi dei papà restano cerchiati. Giorgione Chiellini ha occhiaie profonde e bluastre e nessuno sa bene a che ora della notte, di ritorno da Kiev, abbia smesso di piangere e disperarsi. Piangeva anche Pirlo, uno che ne ha viste tante e ha sempre quel viso tirato, impassibile: e invece, per una volta, non riusciva a fermarsi, e scuoteva la testa, e tirava su con il naso. Il pianto di Pirlo è stata una roba abbastanza sorprendente. Poi, certo, tutti abbiamo visto i singhiozzi di Balotelli, seduto sul prato, solo (e quando Cesare Prandelli se ne accorge, va lì, si china, la mano disegna qualcosa di molto simile a una carezza, e lo rincuora).
A ripensarci, sono state immagini forti, con una loro struggente bellezza. Immagini non scontate ma neppure del tutto inedite. Ai nostri calciatori, infatti, la nazionale scatena con regolarità sentimenti importanti e, a volte, un pò nascosti; un frullato di valori e sensazioni: si comincia dall’Inno di Mameli, che adesso gli azzurri cantano praticamente tutti, e si finisce alla consapevolezza di giocare davanti a oltre venti milioni di italiani inchiodati alla tivù, tutti a fare il tifo e davvero fratelli d’Italia.
Quando arrivano a giocare in nazionale in genere sono già calciatori esperti, gente che ha vinto e che ha perso ovunque, e che perciò dovrebbe sapere perfettamente come va il calcio. Eppure, quando qualcosa va storto e indossano la maglia azzurra, i loro nervi cedono dolcemente alla commozione. È capitato a tanti. Ricordatevi di Franco Baresi, ai Mondiali del ’94, finale di Pasadena contro il Brasile: Baresi, un uomo che pareva d’acciaio, sbaglia il rigore e subito il volto gli diventa maschera di mortificazione, e deve andare Raffaele Ranucci, all’epoca capo delegazione azzurra, oggi senatore del Pd, a prendergli la testa e a mettersela sulla spalla. Dirà Baresi: «Per molte notti ho poi sognato che il pallone entrava e poi usciva e poi entrava ancora».
Gigi Di Biagio, quattro anni dopo, in Francia, sbaglia il rigore proprio contro i padroni di casa (una botta micidiale finita sulla traversa, che ancora trema) e crolla, letteralmente, sulle ginocchia. Statua di dolore, le mani sul viso, un pianto irrefrenabile.
Giorgione Chiellini, l’altra sera, non ha sbagliato un calcio di rigore ma è chiaro che Fabregas gli è sgusciato via molto, troppo facilmente (poi Fabregas la mette in mezzo, dove arriva Silva, che picchia con la fronte piena e porta in vantaggio la Spagna). Il primo gol è insomma tutto sulla coscienza di Giorgione. Lui lo sa. E così, alla fine della partita, gira per il campo ripetendo a tutti, «scusate, scusatemi tanto». Il dispiacere che diventa mantra, senso di colpa da espiare. Ancora adesso, mentre stiamo quasi per atterrare all’aeroporto di Fiumicino, Buffon prova a sdrammatizzare, gli si siede vicino: «Oh, pensa che casino di traffico a Roma se avessimo vinto...».
Comunque anche Buffon aveva gli occhi che luccicavano, in quello schifo di notte a Kiev, e poi c’era Giaccherini, piccoletto, che si mordeva il labbro. Marchisio appoggiato a Bonucci, che tremava dal nervoso; finché, ad un certo punto, si è sciolto anche lui.
Certo, le lacrime su un campo di calcio non riguardano solo la nostra nazionale (il calcio è una faccenda di sentimenti ovunque). Maradona piange quando vince il primo scudetto a Napoli. Ronaldo (il brasiliano) ha i goccioloni il 5 maggio del 2002, seduto su una panchina dell’Olimpico, quando l’Inter perdendo con la Lazio, perde anche il titolo. Si commuove Rino Gattuso, all’ultima di campionato, quando saluta il pubblico del Milan. Claudio Ranieri, allenatore di un’Inter malconcia, batte il Chievo e i fotografi tutti lì, a fermare in mille scatti il suo sguardo lucido.
Lacrime di gioia o di dolore, però non lacrime per tutti. Come invece spiega Chiellini, scendendo dall’aereo, «io l’altra sera non piangevo per me, ma per l’Italia».
Fabrizio Roncone