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 2012  luglio 03 Martedì calendario

L’EUROPA VISTA DA BERLINO


I risultati del vertice europeo della scorsa settimana potrebbero segnare un punto di svolta nella lunga crisi dell’eurozona. E tuttavia essi rendono ancor più urgente accelerare le riforme. Perché fra gli annunci di Bruxelles e le azioni concrete che ora dovranno seguire trascorrerà molto tempo, e i mercati si interrogano se alla fine tutto andrà come il comunicato di venerdì scorso ha lasciato intendere. In questa incertezza è solo la determinazione di ciascun Paese a fare i propri «compiti a casa» che può tranquillizzare gli investitori.
La novità più interessante emersa nel vertice è la strategia della Germania. Solo poche settimane fa Angela Merkel non aveva consentito l’uso diretto di fondi europei per ricapitalizzare le banche spagnole. Venerdì invece ha detto sì, ma a condizione che il potere di vigilare sulle banche di ciascun Paese sia trasferito alla Banca centrale europea. Sarebbe una decisione storica: neppure la Federal reserve americana ha poteri tanto ampi. Ma non sarà facile.
Innanzitutto non è chiaro se lo si può fare senza modificare i trattati europei (l’articolo 107 consente il trasferimento alla Bce solo di «alcuni compiti» di vigilanza). In secondo luogo perché proprio in Germania le Casse di risparmio — feudo dei politici che comandano nei Länder — hanno già detto che non intendono farsi vigilare da un’istituzione europea, e che se ciò fosse loro imposto ricorrerebbero alla Corte costituzionale. Insomma, ci vorrà del tempo prima che la condizione tedesca sia soddisfatta, e nel frattempo la ricapitalizzazione delle banche può solo avvenire a carico dei già debolissimi conti pubblici spagnoli.
Sulla possibilità di usare fondi europei per acquistare titoli pubblici e quindi ridurre gli spread (la richiesta dell’Italia durante il vertice a Bruxelles), Angela Merkel ha per ora di fatto detto no. La Germania ritiene che per arrivarci sia necessario un altro passo avanti nell’integrazione, cioè un’ulteriore cessione di sovranità. Ad esempio accettare che, se un Paese non rispetta gli impegni che ha preso sui propri conti pubblici, la nuova legge finanziaria che si renderà necessaria non sia scritta dal suo governo e approvata dal suo Parlamento, ma scritta dalla Commissione di Bruxelles e approvata dal Parlamento europeo.
Un simile passo, che sarebbe infinitamente più rivoluzionario dell’inutile battaglia sugli eurobond, potrebbe essere meno lontano di quanto si pensi. L’idea di un meccanismo antispread ha avuto il merito di affermare che divari troppo ampi nel costo del denaro sono incompatibili con la moneta unica. Ma allo stato attuale interventi sui titoli appaiono improbabili. Chi li potrebbe fare, infatti, non ha le risorse necessarie per essere credibile: lo European financial stability fund ha solo poche decine di miliardi di liquidità, e il nuovo European stability mechanism (Esm) ha solo il suo capitale (80 miliardi, che riceverà poco alla volta). Come abbiamo imparato nel settembre del 1992, durante la crisi dei cambi fissi rispetto al marco tedesco, solo disponendo di risorse teoricamente illimitate si possono stabilizzare i prezzi.
Allora solo la Bundesbank era in grado di difendere i cambi fissi: nel momento in cui non fu più disposta a farlo il sistema crollò. Oggi solo la Bce potrebbe impegnarsi a limitare gli spread: acquistando essa stessa i titoli o finanziando l’Esm. La Germania (fortunatamente) si oppone a un simile uso improprio (e inutile) della politica monetaria: infatti non ha consentito che all’Esm fosse data una licenza bancaria. Gli interventi quindi non sarebbero credibili, e perciò sarebbero controproducenti.
Con buona pace di coloro che da settimane accusano Angela Merkel di essere un’irresponsabile, il vertice ha chiarito che la cancelliera non ha alcuna intenzione di lasciare fallire l’unione monetaria. È l’unico leader europeo ad avere una strategia chiara e che potrebbe funzionare. Non salti nel buio, proposte inutili e irrealizzabili, come gli eurobond, ma una progressiva cessione di sovranità all’Europa, cioè una transizione graduale ma concreta verso un’unione politica.
Nel frattempo però gli argini rimangono fragili e le nostre debolezze le stesse di una settimana fa, perché non vi era nulla che il vertice potesse fare per risolverle.
L’unica strada è continuare a fare ciascuno i propri compiti. Nel nostro caso una riduzione drastica della spesa pubblica (e quindi il prima possibile delle imposte), vere privatizzazioni (non trasferimenti di azioni da un braccio dello Stato ad un altro), il completamento degli interventi (finora troppo timidi) volti ad aprire i mercati.
Il tempo sta per scadere. La campana potrebbe suonare già il 7 agosto, quando si conosceranno i dati sulla crescita del secondo trimestre dell’anno, purtroppo, temo, non buoni.
P.S. Riprendo a scrivere dopo aver consegnato al governo, il 23 giugno scorso, il rapporto sui Contributi pubblici alle imprese, ed aver così esaurito l’incarico che mi era stato affidato. Mi auguro che quel lavoro sia di qualche utilità nell’ambito della spending review.
Francesco Giavazzi