Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 2/7/2012, 2 luglio 2012
L’INFERNO DEI MINATORI È PATRIMONIO DELL’UMANIT
Che il Bois du Cazier, con altre tre miniere storiche del Belgio (Grand-Hornu, Bois-du-Luc, Blegny-Mine), diventi patrimonio mondiale dell’Unesco è una bella notizia. Perché viene naturale pensare che quel riconoscimento, per una volta, non vada tanto ai luoghi, di per sé insignificanti, quanto alle persone che li hanno resi memorabili con il loro lavoro e, purtroppo, con la loro vita. E non serve un eccesso di orgoglio nazionale per aggiungere che un pezzo di quel patrimonio della Vallonia è anche italiano, visto che lì, nel distretto minerario di Charleroi (ma non solo a Marcinelle), sono morti tanti nostri immigrati, quando a morire in fuga dalla povertà eravamo anche noi, cosa che bisognerebbe conservare a futura memoria: dal 1946 al 1963 i morti italiani nelle miniere belghe furono 867.
Ora, certo, l’Unesco motiva la sua scelta sottolineando che si tratta di centri prestigiosi per la loro storia risalente al Medioevo e per il loro valore tecnologico e industriale, centri del lavoro diventati modelli internazionali, imitati ovunque, dalla Russia alla Cina. Ma pur correndo il rischio di passare per guastafeste, non possiamo ignorare che l’8 agosto 1956, quando al Bois du Cazier morirono 262 lavoratori (136 erano italiani), quella miniera non era affatto una miniera modello: armature di legno immediatamente attaccabili dal fuoco, pochissime misure di sicurezza, uomini che lavoravano nudi per il caldo insopportabile a tre, quattro, cinque, settecento, mille metri sotto terra e muli destinati a trainare vagoni nelle gallerie fino alla morte. Schiavismo industriale. Favorito dal patto scellerato che il governo italiano, nel ’46, siglò con quello belga e che stabiliva uno scambio matematico: «Per ogni scaglione di mille operai italiani che lavoreranno nelle miniere, il Belgio esporterà verso l’Italia: tonn. 2.500 mensili di carbone, se la produzione mensile sarà inferiore a tonn. 1.750.000; tonn. 3.500 mensili, se la produzione sarà compresa tra 1.700.000 e 2.000.000 tonn.; 5.000 mensili, se la produzione sarà superiore a 2.000.000 tonn.».
Ora il Bois du Cazier, che è stato attivo dal 1822 per un secolo e mezzo, è un museo esemplare, un luogo di memoria, come i lager nazisti: non troverete scritto «die Arbeit macht frei», ma le cancellate, i comignoli, i mattoni rossi dei centri del carbone ricordano spesso i campi di sterminio (del resto, i superiori chiamavano gli operai non con i loro nomi ma con i numeri che portavano sulle lanterne). Si organizzano visite di gruppo per scolaresche e per turisti, sono allestiti pannelli e proiettati video che ne illustrano la storia, ci sono archivi e librerie. Non manca la simulazione dei rumori assordanti dei locotrattori, dei martelli e dei vagonetti che i minatori sentivano mentre sudavano nelle «vene» della terra, distesi dentro cunicoli anche di 40 centimetri. Gli ex minatori ottantenni che sono rimasti a vivere in Belgio con le loro famiglie ritornano una volta alla settimana per ricordare i compagni morti e si battono perché quel luogo non diventi un centro per «eventi», feste, cene e matrimoni. Perché molti possono mostrare ancora sulle braccia le schegge del carbone, e alcuni devono ancora tenersi attaccati alle mascherine dell’ossigeno e curarsi dalla silicosi contratta decenni fa. Altri ritornano dall’Italia quando vengono invitati per le celebrazioni ufficiali.
Dunque, è giusto che anche questi santuari (cimiteri) del lavoro vengano annoverati tra i siti Unesco, ma non certo per innalzare inni alle «magnifiche sorti e progressive» dell’Europa, anche se sottoterra si trovava uno stipendio e magari un futuro per i figli che la povertà del Paese non poteva promettere. Quella mattina dell’8 agosto un minatore molisano, Antonio Iannetta, a 975 metri sbagliò a inserire un vagonetto sull’ascensore, l’ascensore partendo con quel carrello sporgente si schiantò poco sopra provocando una fiammata che divampò in pochi minuti nei vari livelli della miniera risparmiando solo 12 dei 274 uomini scesi da un’oretta per il primo turno della giornata. In quella miniera dalle strutture di legno, che oggi è celebrata dall’Unesco, le tubature dell’olio correvano vicinissime ai cavi dell’alta tensione. Gli ingegneri, interrogati nei processi sulla follia di quella commistione, dichiararono di non sapere che l’olio è un combustibile. Fu una delle cause, con molte altre, di quello sterminio, ma i responsabili (tecnici e amministratori) furono assolti: si trovò un capro espiatorio nel direttore, condannato a sei mesi con la condizionale. Niente. Iannetta fu spedito in Canada a processo in corso, probabilmente per paura che dicesse cose inopportune. Le autorità italiane non si scomodarono. Le donne e i bambini in lacrime rimasero attaccati per settimane alle inferriate del Bois du Cazier, sperando che qualcuno portasse in superficie, ancora vivi, mariti e padri. Qualche settimana dopo un soccorritore sarebbe uscito in superficie urlando: «Tutti cadaveri!». Nel patrimonio dell’Unesco ci sono idealmente anche loro, le vedove e gli orfani.