Giusi Fasano, Corriere della Sera 2/7/2012, 2 luglio 2012
QUEL VERBO AL PASSATO CHE SVELÒ L’ASSASSINA
«Maresciallo, le preparo un caffè?». La memoria seleziona ricordi, restituisce sensazioni. «Sì, grazie». «Certo che ho corso un bel rischio...» ripensa lui adesso. «Quella donna aveva messo del Roipnol nel caffè del marito, l’aveva portato in un bosco, l’aveva cosparso di benzina e gli aveva dato fuoco». Pausa. Carmine Forcella si prende qualche secondo per recuperare immagini e parole di ventidue anni e mezzo fa. «Era tutto un altro modo di lavorare» riflette. «Se posso farmi un complimento da solo, quella sull’omicidio di Antonio Ferrari fu l’indagine capolavoro della mia carriera. Adesso vedo che sono tutti scienziati...». In ventidue anni ne cambiano di cose... Per esempio le regole base delle indagini per un omicidio, appunto. Aveva 46 anni, il maresciallo Forcella, e a Cantù, nel Comasco, dov’era la sua Compagnia, nulla accadeva senza che lui lo sapesse. Vecchia scuola investigativa: pochi accertamenti scientifici, molto di tutto il resto. «Ricordo che fin dalla prima sera mi fissai su un dettaglio» racconta lui. Si rivede a bussare alla porta di una casa modesta di Desio, nel Milanese. Santina Comandè lo accoglie con un sorriso. «Suo marito è in casa?», «È uscito, non è ancora rientrato». Domande di rito e a un certo punto una risposta strana: «Mio marito era...».
«Io non avevo ancora detto alla signora che probabilmente era suo marito l’uomo arso vivo che avevo appena visto. Allora perché usava il verbo al passato?». L’ormai ex maresciallo Forcella ha scritto di quella conversazione anche nel suo libro «Io non ho paura», sottotitolo: «Racconti di un contadino abruzzese». È la storia della sua vita da maresciallo. Qualche pagina è per i casi che più lo hanno appassionato, molte sono invece per «le enormi ingiustizie che ho dovuto subire. Ho gettato la spugna che avevo 48 anni: potevo farlo e sono andato in pensione ma Dio solo sa quanto avrei voluto continuare a fare il mio lavoro...». Il maresciallo che nel suo territorio controllava tutto e tutti un bel giorno, dopo le dichiarazioni di un pentito, viene accusato di associazione mafiosa. «I miei superiori mi dissero "va’ a Milano per un po’". E lì ho capito che loro avevano il diritto di sospettare di me e che io dovevo difendermi». L’ha fatto dimettendosi, dopo anni è stato prosciolto da ogni accusa. «Ma chi può capire l’amarezza di essere trattato da delinquente nell’aula bunker di Palmi...Vabbè, non stavamo parlando di Santina Comandè?». Di quel verbo al passato, sì. «Ecco. Ma che ci fai con un verbo? Semmai può essere il bandolo della matassa, non certo una prova. Poi è venuto in caserma un benzinaio a dirci che la signora aveva comprato una tanica di benzina. Ma lei ripeteva di averla presa per la moto del marito. Non bastava ancora. E poi ci fu la storia di quel prete...».
Assalita dai rimorsi, dopo l’omicidio la donna confessò il delitto a don Antonio Mutti, parroco della basilica di Desio e guida spirituale della vittima, uomo molto religioso. Vincolato dal segreto professionale il prete fece sapere ai giornali di essere «assolutamente sicuro» che l’omicidio non aveva nulla a che fare con la malavita e che «la pista da cercare era di ben altra origine». Il messaggio non sfuggì al maresciallo, ovvio. Tre indizi, dice una vecchia regola, fanno una prova. E adesso forse si poteva incalzare la sospettata, «i tempi erano maturi per una confessione», per dirla con le parole di Forcella. «Una sera la riportai a casa dopo un interrogatorio in caserma. Le dissi "questo è il mio numero, se ha bisogno mi chiami". "E perché dovrei aver bisogno?" chiese lei. E io: "Non si sa mai". La vedevo in pena sull’orlo del burrone. Il mattino dopo mi chiamò alle sette». Forcella chiamò il magistrato, «vado da lei, secondo me confessa». «Ma figurati...».
I ricordi arrivano a ondate. «Non ho scordato niente del mio lavoro anche se di tempo ne è passato tanto. Adesso scrivo libri, mi diverto, faccio indagini per i privati, sono stato eletto due volte in Consiglio Comunale. Insomma, un’altra vita. Niente a che vedere con le sensazioni di quel giorno, il 26 gennaio del 1990. «Andai a casa della Comandè con un brigadiere. Ricordo che gli ho detto: "Io vado, se fra un’ora non sono uscito entra perché vuol dire che ha fatto fuori pure me". Lei mi offrì quel caffè, ci fu un momento di silenzio e poi disse "alla fine una trova il coraggio" e cominciò a parlare. Secondo lei il marito voleva andarsene a Medjugorje e lasciare tutto a Radio Maria, era terrorizzata all’idea che i suoi figli morissero di fame». Santina Comandè ha scontato la sua pena in un istituto psichiatrico. Ogni tanto il maresciallo Forcella pensa a lei, ai suoi due figli. E ogni volta che succede gli viene in mente «una scena che non dimenticherò mai», come dice lui. «Dopo l’arresto il mio appuntato le portò il vassoio con il cibo e quella donna scoppiò a piangere. "Che succede?" chiesi io. "In vita mia è la prima volta che ricevo una gentilezza del genere" rispose. La verità è che Santina era una povera crista...».
Giusi Fasano