Marco Cremonesi, Corriere della Sera 2/7/2012, 2 luglio 2012
GLI ATTACCHI, LA RABBIA, IL DOLORE COSÌ SI È CHIUSA L’ERA DEL SENATUR
Chi ha rapito Umberto Bossi? Dove è scomparso il leader pragmatico fino al cinismo, il «Capo» in grado di orientare in modo quasi soprannaturale i sentimenti della «sua gente», il tattico dalla visione di gioco con l’angolo più ampio? Ieri, ad Assago, non c’era. Al suo posto, un sosia che consente ai tanti rancori di rompere gli argini e un uomo ferito che non riesce a liberarsi dall’ossessione di un complotto messo a segno da magistrati e giornali. E pazienza se alla macchinazione, ormai, non credono nemmeno i supporter più scatenati.
Così, l’incoronazione di Roberto Maroni si trasforma per Bossi nella più amara delle uscite di scena. Il suo non è un discorso politico, non indica alla sua creatura nuove strade. Certo, ripete alla platea i cavalli di battaglia degli ultimi vent’anni. Ma di prospettive non ne offre: è venuto sul palco a tirar calci. E incomincia subito, già dalla prima frase, con Flavio Tosi. È a lui che si riferisce quando parla del «sogno della Padania», quello che è necessario ricordare a «tutti gli imbecilli che fanno parte della Lega ma girano con il tricolore».
Poi, tocca allo stesso Maroni. Il figlioccio, ricordano lividi i bossiani, che fu riaccolto in Lega nel febbraio 1995 quando invece il movimento ne evocava l’epurazione — ironia della storia — per eccesso di berlusconismo. Il fondatore del Carroccio parla delle «ramazze padane», simbolo della notte bergamasca in cui l’ex ministro dell’Interno, lo scorso aprile, promise l’espulsione di Rosi Mauro. Bossi non l’ha ancora mandata giù: «Quelli che alzano le scope farebbero meglio, se andiamo a fondo, a non alzarle troppo». Poi, nel pendolo bossiano, arriva il nuovo calcio per Tosi: tra i branditori di ramazze «ce n’era uno ridicolo, che urlava. Poi, invece di far pagare il suo autista dal suo Comune, lo faceva pagare dalla Lega». È lo stesso sindaco scaligero a spiegare la vecchia vicenda: «La Lega di Verona, per far risparmiare soldi al Comune e cioè ai contribuenti, decise di pagare l’autista al mio servizio».
Finita? Non ancora. Tocca di nuovo a Maroni. Se le inchieste e gli scandali che hanno segnato la Lega negli ultimi sei mesi sono stati «studiati a tavolino», è vero che «qualcuno ha aperto la fortezza della Lega dall’interno». E cioè, l’ex tesoriere Francesco Belsito. Sennonché, secondo Bossi, qualcuno doveva pur sapere dei presunti legami dell’ex esponente ligure con la ’ndrangheta: «Chi lo sapeva doveva dircelo. I servizi segreti lo sapevano e dovevano dircelo subito». Come è noto, in quel periodo, Maroni era a capo del Viminale. Bossi sembra non ricordare che Belsito fu introdotto in Lega da un suo fedelissimo, lo scomparso Maurizio Balocchi. Lo ricordano, probabilmente, i militanti: che accolgono la sua sortita con il silenzio.
Al di là delle pedate, ciò che Bossi proprio non sembra cogliere è il sentimento diffuso, la voglia della «sua gente» di superare le polemiche che hanno squarciato il movimento. Il suo continuo tornare a quanto è accaduto, il suo ostinarsi nella teoria del complotto non raccoglie che qualche stentato applauso. Mentre Luca Zaia, il governatore veneto, fa venir giù il Forum dagli applausi con una posizione opposta: «È inutile pensare ai complotti. Dalle mie parti quando si sbaglia si chiede scusa e ci si mette pancia a terra a lavorare». Ma Bossi, quando ciò accade, è ormai altrove. Dopo aver accusato non si sa bene chi di aver fatto «imbrogli sullo statuto», viene ripreso dallo stesso Zaia («Guarda che è stato approvato quasi all’unanimità») lascia il palco stizzito, senza neppure un saluto: «Vado a leggermi lo statuto». Riapparirà più tardi, appena prima del voto, per raccontare la metafora di Salomone: «Non sapeva decidere di quale delle due madri è il bambino, e allora dice alle guardie di tagliarlo a metà. La vera madre, per salvarlo, dice che il bambino è dell’altra». Poi, conclude tra le lacrime: «Questo è quello che ho fatto io... il bambino è suo», indicando Maroni. L’uomo col quale nel lontano 1979 si incontrò per dare vita al progetto leghista. Il dirigente più prestigioso del Carroccio che lui stesso, nell’assai più recente gennaio 2012, tentò di condannare al silenzio con quella «fatwa» tuttora mai raccontata fino in fondo: vietato far parlare «Bobo» alle manifestazioni leghiste.
Nessun dubbio: l’immagine di Salomone commuove parecchi militanti. Resta il fatto che additare Maroni come una madre abusiva non è quel che si dice un incoraggiamento. Ma, ormai, è l’intera Lega a essere altrove: su 614 delegati, contro Maroni vota uno soltanto.
Marco Cremonesi