Giovanni Bianconi, Corriere della Sera 1/7/2012, 1 luglio 2012
«DI MAGGIO ESTRANEO ALLA TRATTATIVA QUESTA È LA LETTERA CHE LO DIMOSTRA»
Ha letto sui giornali che, se fosse ancora vivo, suo fratello sarebbe indagato nell’inchiesta sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia al tempo delle stragi del 1993. In concorso con boss del calibro di Totò Riina e Bernardo Provenzano, in qualità di ipotetico intermediario del loro ricatto verso le istituzioni. Ha letto e riletto il capo d’imputazione e gli stralci di verbali che sostengono la ricostruzione dell’accusa. E ha deciso di presentarsi alla Procura di Palermo, per chiedere copia degli atti giudiziari e offrire testimonianze e documenti in difesa del fratello che non può più farlo: l’ex giudice Francesco Di Maggio, vicedirettore delle carceri italiane a partire dal giugno di quel drammatico ’93, morto nell’ottobre del 1996.
Nei prossimi giorni Tito Di Maggio, imprenditore che lavora a Matera, presenterà la sua istanza, volta a proteggere la memoria e l’onorabilità di un fratello che tanto gli somigliava nel fisico, e del quale raccoglieva sfoghi e confidenze. Forte non solo dei ricordi, ma anche delle carte inedite conservate da Francesco Di Maggio, che in famiglia chiamavano Franco, dopo l’esperienza vissuta come numero due del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.
«Leggo che ci sarebbe un mistero sulla sua nomina — spiega Tito Di Maggio —, ma io so quali sono le ragioni. E leggo che avrebbe avuto un ruolo nell’alleggerimento del 41 bis (il carcere duro per i mafiosi, ndr), ma io ho i documenti dai quali si può capire come mio fratello fu di fatto esautorato in quella decisione». I documenti che Tito ha ritrovato e conservato sono la minuta di una lettera inviata da Di Maggio al suo superiore dell’epoca, il capo del Dap Adalberto Capriotti, e alcuni capitoli del libro che suo fratello stava scrivendo dopo aver lasciato la gestione delle carceri nell’autunno del ’94, in forte polemica col nuovo ministro della Giustizia Alfredo Biondi.
«È con lui che Franco litigò dandogli del tu e probabilmente alzando la voce — dice Tito Di Maggio —, non con Conso come ha erroneamente testimoniato Capriotti. È vero invece che tra lui e Capriotti ci furono incomprensioni e diversità di vedute, di cui è prova anche questa lettera di Franco».
Si tratta di tre pagine scritte sulla carta intestata del Ministero di Grazia e Giustizia, con la dicitura «Riservata-personale». Non c’è la data, ma è la copia di uno sfogo che Di Maggio indirizzò a Capriotti presumibilmente all’inizio del 1994, giacché in un passaggio si legge: «Come ti è noto, il 30 dicembre scorso ho firmato, con il tuo consenso, tutta la posta giacente». Il punto che riguarda l’inchiesta palermitana è quello in cui Di Maggio si rammarica: «Debbo constatare che da parte tua resistono nei miei confronti talune riserve che, francamente, mi è difficile comprendere. La vicenda Calabria è, in questo senso, significativa. Te ne ho scritto e parlato. Attendevo che tu mi facessi conoscere il tuo punto di vista, apparendo del tutto naturale che la questione (e qui c’è un’aggiunta a mano dove s’intuisce tra parentesi la scritta «41 bis», ndr), in sé delicata, venisse trattata dal Direttore generale insieme al suo più stretto collaboratore (cioè lo stesso Di Maggio, ndr). Non solo così non è stato, ma Calabria è stato ricevuto, per tuo tramite, dal Ministro, realizzandosi così quell’obiettiva delegittimazione che, insieme, abbiamo rimproverato proprio al Ministro in casi analoghi».
Questo brandello di corrispondenza interna al Dap potrebbe gettare nuova luce sulla decisione dell’ex ministro Conso di liberare dal «carcere duro» oltre trecento detenuti nell’autunno del ’93, che per gli inquirenti costituisce la controprova della trattativa con Cosa nostra. L’ex Guardasigilli ha sempre detto che la prese «in solitudine», svincolandola da qualunque patto con gli emissari di Cosa nostra, senza essere creduto. Anche perché agli atti c’è un appunto del 26 giugno ’93, firmato da Capriotti appena giunto al Dap, che suggerisce quella soluzione per dare «un segnale positivo di distensione». Appunto sul quale c’è il sospetto che abbia giocato un ruolo proprio Di Maggio, ma redatto da un altro magistrato all’epoca in servizio nell’amministrazione penitenziaria, Andrea Calabria. Ora, con questa lettera, si affaccia un’altra ipotesi: da quella vicenda Di Maggio fu tenuto fuori, come lui stesso lamenta. E il riferimento a Calabria lascia trapelare un contrasto nonché un contatto diretto tra l’estensore dell’appunto in cui si suggerisce l’allentamento del «41 bis» e il ministro che l’ha deciso.
Quanto ai motivi dell’arrivo di Di Maggio alla vice-direzione delle carceri, il fratello Tito racconta: «Franco fu chiamato a Roma dall’allora presidente della Repubblica Scalfaro, il quale l’aveva conosciuto quando era ministro dell’Interno. All’epoca lui faceva il pm a Milano e aveva raccolto le confessioni di Angelo Epaminonda, il quale chiese protezione per i suoi familiari; Franco investì della vicenda il ministro Scalfaro, che tramite il cardinale Martini trovò rifugio ai parenti del boss in un istituto religioso. Da allora nacque un rapporto di stima di cui il presidente si ricordò all’inizio del ’93 quando l’inchiesta Mani Pulite stava creando grossi problemi alla politica. Franco s’era trasferito a Vienna come consulente giuridico della rappresentanza italiana alle Nazioni unite, ma aveva conservato buoni rapporti con i suoi ex colleghi; Scalfaro gli chiese se poteva fare da trait d’union con i magistrati milanesi. Lui accettò, e lavorò a quella "soluzione politica" di Tangentopoli poi abortita. Per tenerlo ancora a Roma, gli fu proposto il Dap dove lo stesso Falcone, un anno prima, gli aveva suggerito di andare».
Anche di questa ricostruzione si può trovare qualche riscontro nelle pagine lasciate da Di Maggio, scritte poco prima di morire con una prosa ridondante e a tratti irridente. Nel capitolo intitolato «Antefatto semiserio» si legge: «Con uno stratagemma tipicamente capitolino mi avevano richiamato in Patria... Qualcuno aveva conservato memoria della mia assiduità al lavoro, e concepito di affidarmi le funzioni di ufficiale di collegamento tra la giurisdizione Padana e il Palazzo...». Poi si parla dell’accordo bruciato «col primo decreto cosiddetto SalvaLadri», ed ecco lo spostamento al vertice dei penitenziari: «Il Pianeta Carcere stava per esplodere e mi spedirono a dar manforte, così mi era stato assicurato, al nuovo Direttore generale. Nella Casa madre di tutte le galere ho trascorso diciassette mesi di spaventosa detenzione».
Il capitolo che doveva intitolarsi «Diciassette mesi di disgrazie», però, Francesco Di Maggio non ha fatto in tempo a scriverlo. Restano altri brani del memoriale, in cui si rievocano i diverbi con Capriotti che voleva liberarsene perché lo considerava «un fottutissimo forcaiolo» che «si è bevuto il cervello con il doppio binario, un circuito per i comuni e uno per i mafiosi»; e l’ultimo incontro romano con Falcone che, prima della strage di Capaci, gli aveva detto: «Devi rientrare in Italia, devi occuparti del carcerario».
Rileggendo queste carte e ripescando nei suoi ricordi — anche dei rapporti tra suo fratello e l’ex generale dei carabinieri Mori «che lui considerava uno dei migliori ufficiali dell’Arma»; o della confidenza con il caposcorta che di recente ha testimoniato sulle pressioni subite dall’ex vicedirettore delle carceri a proposito del 41 bis, «ma di a me non parlò mai» — Tito Di Maggio ha deciso di presentarsi alla Procura di Palermo. «Perché è giusto che i magistrati indaghino in ogni direzione per far luce sui fatti ancora oscuri di vent’anni fa, ma io non posso permettere che il nome di Franco venga affiancato a quelli di Riina e Provenzano. Significa che il Paese s’è capovolto, e se mio fratello non può più provare a raddrizzarlo, devo provarci io».
Giovanni Bianconi