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 2012  giugno 30 Sabato calendario

CHE BEL FILM (SE LO AVESSERO GIRATO)


D a Buñuel a Stroheim su su fino a Kubrick e Tarantino il feticismo ha spesso attraversato il cinema. Chi se n’era tenuta distante era invece la critica, il cui amore per il cinema — in fondo il feticismo è una passione spinta agli eccessi — finiva quasi sempre per essere ingabbiato dentro le griglie di una qualche forma di cultura: nozionismo, citazionismo, decostruttivismo.
A infrangere il tabù ci ha pensato Maurizio Porro, che ha ripreso alcuni suoi «peccati di gioventù» (un libro con Giuseppe Turroni, una rubrica su «Linus») per rivendicare a gran voce il diritto/dovere di catalogare i film secondo le categorie degli amatissimi luoghi comuni. Il cinema vuol dire... (secondo tempo) riprende il lavoro fatto nel ‘79 con Turroni per ampliarlo e sistematizzarlo. Ieri il lavoro dei due infaticabili cinefili era quello di raccogliere i topoi del cinema, quelle immagini ricorrenti che in un certo linguaggio cinematografico (grosso modo quello messo a punto a Hollywood tra i Trenta e i Cinquanta) avevano assunto il valore di elementi indicatori. Perché non era mai un caso se un’attrice indossava una pelliccia o dondolava la borsetta in un particolare modo o se un uomo si mostrava in canottiera o apriva un vecchio baule in soffitta.
Oggi il cinema è cambiato e Porro (il sodale Turroni non c’è più) si trova a fare i conti con un modo diverso di utilizzare gli stereotipi: nella seconda parte del libro ogni voce, da «Almodovarismo» a «Armadietto scolastico», da «Gay addiction» a «Stalliere», da «Pipì di gruppo» a «Telefonini», non svela solo l’acutezza dello spettatore ma anche la malinconia di chi vede svanire l’ambizione del cinema di essere metafora della vita. Oggi, al massimo può esserla solo dei desideri, e per giunta repressi. Che trovano il loro ultimo, personalissimo exploit nella terza parte del libro, quella più personale e scanzonata, dove Porro si inventa una trentina di film possibili, con titolo, cast, frasi di lancio e a volte anche giudizi critici, da Natale a Escort City (naturalmente con Christian De Sica e Massimo Ghini) a Salvatore Saviano (che Fazio ha già definito «più di un mito») fino a La ex del mio ex è una mia ex dove anche Fausto Brizzi riesce a «superare se stesso».

Il libro: Maurizio Porro, «Il cinema vuol dire... (secondo tempo)», Bompiani, pp. 304, 13