MIRELLA SERRI, La Stampa 30/6/2012, 30 giugno 2012
“Come Cervantes non accetto gioghi” - Cos’hanno in comune un industriale della seta che ha levigato il suo inglese a Oxford e ogni due minuti controlla il saliscendi di Piazza Affari e un rude montanaro perennemente abbigliato, d’estate e d’inverno, con casacca smanicata, pedule e calzerotti? Apparentemente nulla ma invece entrambi - Mauro Corona, l’arrampicatore-scultorenarratore, ed Edoardo Nesi, ex imprenditore e vincitore del premio Strega 2011 - sono autori di gran successo
“Come Cervantes non accetto gioghi” - Cos’hanno in comune un industriale della seta che ha levigato il suo inglese a Oxford e ogni due minuti controlla il saliscendi di Piazza Affari e un rude montanaro perennemente abbigliato, d’estate e d’inverno, con casacca smanicata, pedule e calzerotti? Apparentemente nulla ma invece entrambi - Mauro Corona, l’arrampicatore-scultorenarratore, ed Edoardo Nesi, ex imprenditore e vincitore del premio Strega 2011 - sono autori di gran successo. Non solo. Corona, dopo aver venduto circa tre milioni di copie dei suoi libri e aver trasformato la sua Erto in luogo di culto per gli ammiratori, ora ha reso proprio Nesi protagonista del nuovo romanzo, La casa dei sette ponti (Feltrinelli). «Metter al centro della mia ultima fatica lo scrittore di Prato, nonché proprietario di un’azienda divorata dalla globalizzazione e svenduta», spiega il climbernarratore le cui storie sono ambientate nei posti che furono lo scenario della tragedia del Vajont, «è un modo per mantenere la memoria del lavoro, del sacrificio, della fatica di impegnarsi in una scommessa. Ho dedicato il romanzo anche a Francesco Guccini perché, andando a Pàvana a trovarlo, ho incontrato sulla mia strada la casa che dà il titolo al nuovo racconto: una casupola fatiscente, dall’apparenza disabitata ma con i comignoli sempre fumanti e al posto del tetto teli di plastica blu, rossi verdi. Ho provato a dare un’identità a quei misteriosi inquilini». L’eremita-filosofo delle montagne, il narratore solitario, adesso ha scelto come epicentro narrativo l’Abetone in un libro-fiaba che fa venir voglia di andare a spasso tra i dirupi dell’Appennino. Quale altra lettura suggerisce a chi è in procinto di fare vacanza tra picchi e valli? «Jean Giono che non parla solo di Ussari e spie austriache ma è anche un mago nella descrizione di selve, torrenti, campi di lavanda. Aggiungerei Storia di Tönle di Rigoni Stern e tutti i suoi libri in cui quasi fisicamente ci si immerge nel fresco dei boschi, si assapora il piacere della caccia, dell’amicizia, l’orrore della guerra; poi i racconti di Ernest Henry Shackleton della spedizione 1914 a bordo della Endurance, con la nave che rimane prigioniera dei ghiacci, e Francisco Coloane con i numerosi viaggi a cavallo, in barca e in veliero nell’Antartide, nella regione australe del Cile, nelle Galapagos e in Mongolia, molto simile alla Patagonia della gioventù». I suggerimenti di Corona non sono mai dettati dal caso: provengono dal profondo, perché i libri sono stati la sua ancora di salvezza nei momenti più aspri e difficili. «Ho vissuto da orfano con i genitori ancora in vita. Quando mia madre, Lucia, scappò per sfuggire alle percosse e alle violenze di mio padre e ci abbandonò, io avevo 6 anni, mio fratello Felice 5, l’ultimo nato appena 11 mesi. Lasciò una casa vuota, priva della sua presenza ma piena dei volumi che lei aveva ereditato dal nonno, segretario comunale a Erto. C’erano Dostoevskij, Cervantes, Dickens. Cominciai a divorarli, senza approfondire, senza capire bene le vicende, l’intreccio. Ma erano il suo sostituto, la traccia che mi collegava a lei. Intanto imparavo l’arte della scultura lignea dal nonno intagliatore.Siamo figli di quello che ci è successo nell’infanzia e io non sono certo un uomo allegro. Mia madre è tornata ma è sempre stata molto dura, mai un abbraccio, una carezza. Don Chisciotte, David Copperfield, i fratelli Karamazov riempivano la mia esistenza e la lettura teneva alla larga il dolore e la solitudine». In quella stanza, il piccolo Mauro si prese la sua parziale rivincita. «E’ stato lì che ho imparato a mettere nero su bianco le mie emozioni, a controllare le mie ossessioni». La scuola le offrì qualche aiuto? «Al contrario. In classe per dispetto e per provocazione leggevo i fumetti di Tex. Non ho mai sopportato chi mi vuol dare ordini. Papà mi chiuse in collegio privandomi dell’esercizio fisico. I padri salesiani mi facevano leggere Sant’Agostino, l’Antico e il Nuovo Testamento. Non che mi dispiacessero ma non sopportavo la disciplina. Il mio modello di scrittore è Cervantes che non sottostava alle imposizioni: approdò in Italia per evitare la condanna al taglio della mano destra, accusato di aver ferito un rivale in una rissa. L’unico periodo in cui non mi sono fatto fare compagnia da una pagina scritta è stato quando sono andato a lavorare in una cava di marmo. Ero stremato dalla fatica. Mi ricordo ancora quel terribile giorno in cui mio padre mi venne a prendere in motoretta e mi diede la ferale notizia. Avrei voluto iscrivermi alla scuola d’arte di Ortisei... Non c’erano i soldi. Fui letteralmente deportato al lavoro nella cava di marmo di Buscada. “Sei un fallito”, mi disse quel bastardo poco prima di morire. Papà era convinto che avevo sbagliato a non voler diventare impiegato dell’Enel. I miei genitori li ho profondamente detestati. “La famiglia è un’associazione a delinquere”, diceva Pasolini e aveva perfettamente ragione». Anche stanotte, pardon stamattina, Mauro Corona si è alzato alla solita ora, alle tre, e se n’è andato a vagabondare nella Val Semola con un libro in tasca. «Leggere è distrarsi dai problemi, essere tirati per la giacchetta e portati fuori. Gli autori più efficaci? Borges, con le sue ultime Conversazioni che fanno di lui il narratore-filosofo per eccellenza; Juan Rulfo, con Pedro Paramo , incarnazione del terribile padre padrone di un’intera comunità; Platonov, con la sua esplosiva opera proibita in Unione Sovietica; Šalamov, con I racconti di Kolyma , dove ne Lo scoiattolo si narra la spietata malvagità non solo contro gli uomini ma anche contro gli animali inermi; Babel, con L’armata a cavallo , anche lui vittima dello stalinismo. Ho divorato Hugo von Hofmannsthal, Kleist, Schnitzler, l’ Ulisse di Joyce, la Recherche , La montagna incantata e pure Le considerazioni di un impolitico di Mann». Alcol e scrittori è un binomio che va spesso a braccetto, da Joyce a Hemingway a Bukowski. Lei stesso nei suoi libri racconta storie di ciucche clamorose. «Frequentavo ancora le elementari quando ho cominciato a bere. Mi allungavano il latte e poi il caffè con la grappa, era un sollievo, mi dava forza, energia. Adesso sono nove mesi che giro alla larga dalla bottiglia. Ho smesso perché ho capito che il vino fa male non tanto a me quanto a quelli che mi vogliono bene. Sto scrivendo un libro non per insegnare ai giovani a tenersi lontano dall’alcol - impossibile - ma a saperlo gestire e a consumarlo in dosi non dannose per la salute. Quanto a Bukowski, mi ispira una dolcezza infinita. Più apprezzato dagli uomini. Le donne lo trovano violento, volgare. Me lo immagino con il mio stesso difetto, egocentrico. Claudio Magris una volta che era con me all’osteria mi rimproverò: “Non ti accorgi che dici sempre io?”. Aveva ragione, da allora mi sono corretto». Gli scrittori non sempre hanno un buon carattere. «Lo ha ben detto Vila-Matas, sono spesso “meschini, arroganti, invidiosi e fifoni”. Quando vedo uno di questi sapientoni alla Piperno superati in classifica da un volume che si dedica a pane e cipolle fritte, ovvero dai testi di cucina di Benedetta Parodi, tutto sommato mi rallegro e mi faccio qualche risata».