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 2012  giugno 30 Sabato calendario

ORA C’È BISOGNO DI TEMPO E POLITICA

La storia non ha nascondigli/La storia non passa la mano». Non penso che Monti, Van Rompuy e Merkel siano fan di De Gregori (fattori generazionali e d’estrazione, credo).
Ma alla fine di un vertice europeo che ha sorpreso un po’ tutti per la qualità e quantità di decisioni prese, le parole del cantautore sembrano una colonna sonora adatta. L’incontro di Bruxelles sarebbe potuto finire come tanti altri incontri di Bruxelles: una serie di dichiarazioni magniloquenti che rimangono fini a stesse, prigioniere delle sabbie mobili della burocrazia europea e beghe politiche nazionali. Ma la convergenza di una crisi sempre più acuta e la necessità di prendere misure drastiche prima che sia troppo tardi ha conferito al summit una patina storica.

Giovedì mattina, l’Unione Europea si trovava ad un bivio: da una parte, la strada verso un’unione fiscale e politica, dall’altra l’abisso della disintegrazione della moneta unica. Venerdì mattina, ha imboccato decisamente la prima strada. E’ ormai inutile discutere i dettagli di come il continente sia arrivato a tale punto di rottura. Il Bignami della crisi scriverà che incuria e pessima gestione della situazione avevano messo l’euro e i suoi membri con le spalle al muro.

Quel che conta, ora, sono i risultati. Diciamolo chiaramente: le proposte radicali per una «unione bancaria» pan-europea, la possibilità di usare fondi comunitari per immettere capitali nelle banche malate ed un’assicurazione comune per i depositi bancari del continente non sono particolari tecnici. Sono i primi passi verso gli Stati Uniti d’Europa.

A molti l’idea non piacerà, ma la finanza non è un’opinione, almeno in questo caso. Come posso essere così sicuro? La storia degli altri Stati Uniti, quelli d’America, è prova lampante che un’unione monetaria accompagnata da un’unione bancaria può esistere solo nel contesto di un governo federale. Uno dei capi di Wall Street me lo ha spiegato bene questa settimana: «Almeno», ha detto, «l’Europa sta arrivando ad un’unione politica senza la guerra civile per cui siamo dovuti passare noi».

Gli Usa del 1786 sono molto simili alla zona euro del 2012: un’accozzaglia di Stati con interessi diversi, grandi sperequazioni tra Nord e Sud, un’economia in difficoltà ed una diffidenza di fondo tra i vari membri dell’Unione. La differenza fondamentale tra gli Stati Uniti di ieri e l’Europa di oggi è che i padri fondatori riuniti a Philadelphia crearono un’unione monetaria in concomitanza con un’unione politica. I pionieri di Maastricht non furono in grado di fare lo stesso e si dovettero «accontentare» della moneta unica.

Negli ultimi anni, però, l’Europa si è accorta che una moneta non può essere veramente «unica» se i sistemi bancari che le stanno dietro rimangono nazionali. La spaccatura tra nazioni deboli (Grecia, Spagna, Italia, Portogallo, Irlanda) e forti (in particolare la Germania e l’Olanda) ha messo in discussione la premessa fondamentale dell’euro: che i governi dei Paesi hanno tutti la stessa identica capacità di sostenere e garantire le proprie banche. La fuga di capitali dalla Grecia alla Germania, la ricapitalizzazione con soldi «europei» delle cajas spagnole e le paure dei mercati sulla salute delle banche francesi hanno dimostrato che una delle travi portanti dell’euro ormai non tiene più.

L’unico modo per rimpiazzarla è trasferire l’onore e l’onere di salvaguardare il sistema finanziario del continente dai governi e dalle banche centrali nazionali ad un organo paneuropeo, come proposto da Mario Draghi, Jean-Claude Juncker e Van Rompuy prima del summit di Bruxelles.

La possibilità di ricapitalizzare banche in difficoltà con fondi Ue - invece di prestare soldi a governi nazionali - aiuta perché permette di salvare istituzioni finanziarie senza gonfiare i debiti dei Paesi membri. La prima frase del comunicato uscito all’alba di sabato da Bruxelles è stata chiara e tonda: «E’ indispensabile rompere il circolo vizioso tra settore bancario e settore statale», hanno scritto i leader europei. L’esempio degli Stati Uniti è illuminante. Quando una banca fallisce nel Wyoming o nel Montana, a pagare non sono quegli Stati ma il governo federale. Se, nel 1982, l’Illinois avesse dovuto coprire il costo del crollo della Continental Illinois, all’epoca la settima banca negli Usa, lo Stato sarebbe probabilmente andato in bancarotta. Ma il problema non si pose: in una vera unione monetaria e bancaria quali gli Usa, i costi del sistema vengono divisi tra tutti i membri.

Purtroppo, come dicono gli inglesi, «Nessun pranzo è gratis». Lo scambio per la creazione di organismi e fondi pan-europei per salvaguardare il sistema bancario è la cessione della sovranità nazionale. In questo senso, le continue richieste da parte della Germania per una maggiore disciplina fiscale – un «patto di ferro» che punisca i Paesi goderecci e spendaccioni – sono comprensibili e condivisibili. Non si può chiedere alla signora Merkel di aprire i cordoni della borsa senza prometterle che d’ora in poi la smetteremo di fare i figlioli prodighi. Il corollario di tutto ciò, però, non può che essere un movimento inesorabile verso l’unione politica – un’idea che è indigesta a molti Paesi (la Gran Bretagna in primis) e porzioni importanti dell’opinione pubblica (basta chiedere a Beppe Grillo).

Per ora, i mercati hanno votato a favore di questo salto verso l’integrazione di sistemi bancari e fiscali, contenti del fatto che i potenti d’Europa abbiano finalmente fatto qualcosa di concreto. Ma mettere in pratica le proposte del vertice di Bruxelles richiederà sia tempo sia la volontà politica di superare alti ostacoli – due cose che la zona euro non ha in grandi quantità. Dopo anni di tentennamenti e mezze misure, però, non ci sono tante alternative. L’Europa si deve incamminare su un percorso storico quasi suo malgrado. La storia non passa la mano.