Elisa Calessi, Libero 28/6/2012, 28 giugno 2012
AIUTIAMO LE RAGAZZE ROVINATE DAL BOMBAROLO
AIUTIAMO LE RAGAZZE ROVINATE DAL BOMBAROLO–
«Ahia! Mi chiami la mamma?». È la prima volta dal 19 maggio che Azzurra scende dal letto. L’hanno messa seduta in una poltrona. Dopo oltre un mese di isolamento al reparto Grandi Ustioni ora è a chirurgia plastica, all’ospedale Perrino di Brindisi. Domani dovrebbe cominciare a camminare con il girello. Ma ancora non sta in piedi. Ci ha provato, ma le usciva sangue dalle bende. «Mamma, vieni?». La voce è quella di una bambina. Squillante. Spaurita. A sentirla le daresti setto, otto anni. Invece ne ha sedici. Rita, la mamma, lunghi capelli corvini, gli stessi della figlia prima che la bomba esplosa davanti alla scuola Morvillo- Falcone si prendesse anche quelli, dice che è come fosse nata di nuovo. Perché la credevano morta e invece è viva. E perché è come dovesse reimparare tutto. A cominciare dalla fiducia nel mondo. «Mamma, mi aiuti?». Vuole sistemarsi meglio. Ma il braccio destro è pesante. Sopra ha un ferro, conficcato con due chiodi per congiungere le due parti dell’avambraccio, sgretolate dall’esplosione. Dopo oltre un mese di letto, non ha più muscoli, carne. Peserà quaranta chili. Prova a tirare su il braccio con la mano sinistra. Ha gli occhi vispi. Marroni venati di verde. Bellissimi. L’unico punto del corpo non martoriato. Sopra l’occhio destro, all’inizio della cute, ha una ustione ancora viva. L’esplosione ha bruciato la massa di riccioli neri, lunghissimi, che la mamma mostra nelle foto. Ora ha capelli cortissimi. Sulla coscia destra ha una fascia: lì le hanno dovuto togliere la pelle per ricostruirle la pancia. Altre bende sulla gamba destra, sotto il ginocchio, nei piedi. Dove non ci sono bende spunta una pelle venata, da neonato. E qua e là, sulle braccia e nelle gambe, il nero dei frammenti esplosi. Macchie, dicono i medici, che sarà molto difficile far sparire. LA GITA AL MARE Quando è successo quello che ha cambiato tutto stava parlando del mare. Di andarci con Selena e Melissa. Le amiche del paese, Mesagne, quelle con cui ogni mattina prendeva il pullman per andare a scuola. Poi è successo. Azzurra, però, non piange. Nemmeno quando ne parla. Piange quando la medicano, tre o quattro volte al giorno. Perché le ferite bruciano. E se la mamma si commuove, succede spesso, la sgrida. «Dai mamma, la smetti?». Di quel giorno non si ricorda molto. Ma viene fuori, anche se non vuole. Come ieri, quando ha fatto un incubo. Lui, l’attentatore, quello che non vuole sia nominato da nessuno, le prendeva la mano. Poi prendeva quella di sua mamma. Allora lei gridava: «Lascia mia mamma! Lasciala e prendi me!». Guai a chi tocca sua mamma. Non vuole si allontani mai da lei. Infatti Rita da quel giorno vive in ospedale, in stanza con la figlia. Dorme, mangia, si lava qui. Ovviamente non lavora più. Prima, da quando si è separata dal marito, Azzurra era piccola, faceva le pulizie. Per mantenere se stessa, Azzurra e le altre due figlie: Vanessa, 15 anni, Desirè, 7. Si arrangiava così. Tra pulizie e un aiuto dei genitori, che hanno una pensione sociale di 600 euro a testa. Vive da loro con le figlie. «E per fortuna che ci sono. Con mille e duecento ci viviamo in sei», dice Rita, senza un filo di lamento. Certo, sarebbe bello essere indipendenti. Spesso Azzurra lo dice: «Vorrei che avessimo casa tutta per noi». Ora, però, ce n’è abbastanza del presente. La vita in ospedale è faticosa. Azzurra spesso è irascibile. «Ma è per quello che è successo, la capisco. Però è bravissima, un angelo, non piange mai». Chiede solo quando andrà a casa. Soprattutto da quando Sabrina, un’altra delle ragazze rimaste ustionate, fino all’altro giorno in stanza con lei, è andata via. Poi, pian piano, si dovrà ricominciare. Azzurra studia per diventare maestra d’asilo. Alcuni giorni fa ha fatto l’esame del terzo anno, in ospedale. A settembre si iscrive al IV anno. Dovrà abituarsi a uscire, a farsi guardare, cosa che adesso non sopporta. Anche se l’altro giorno ha detto a sua mamma: «Quando torno mi metto i pantaloncini corti, eh. Così vedono cosa mi ha fatto ». L’importante è che la mamma non vada mai via. Prima di dormire le chiede se le accarezza la testa, così <entro nel sonno». L’AFFETTO DEI PARENTI E vuole vicino lo zio Giuseppe, l’altra roccia della famiglia. Marito della sorella di Rita, ha cresciuto Azzurra come un papà. È un omone senza capelli, la faccia buona. Sorride spesso. Eppure di motivi di allegria non ne ha granché. Lavora in un canile, unico stipendio in casa. E da quel giorno i problemi sono aumentati. «Faccio avanti e indietro tutti i giorni, da Mesagne all’ospedale». Vuole dire benzina, permessi. «Spesso Azzurra mi chiama, come fai a dire di no». Come l’altra mattina. Gli ha telefonato: «Zio, zio, vieni che ti devo fare vedere una cosa? ». E poi deve star dietro alle altre due nipoti, le sorelle di Azzurra. «Per fortuna ci sono i turni, così posso andare in ospedale ». In tutto questo Giuseppe ha anche una famiglia sua: moglie e due figlie. Ludovica, 14 anni, e Sara, 10, legatissime alla cugina. Vogliono sempre andare in ospedale a trovarla. E quando riescono, non andrebbero più via. Ludovica aiuta la cugina a muovere le gambe per rimetterle in moto in muscoli. Sara gironzola per la stanza, attorno alla cugina. Sembrano le dame di una principessa. Quel 19 maggio ha cambiato la vita a tutti. Presente e futuro. Giuseppe racconta che da quel giorno non c’è più tranquillità. «Non riesci a pensare a niente, neanche a cosa mangiare per cena. Vivi con l’ansia che ti arrivi una chiamata e dica che è successo qualcosa di brutto». Fino a pochi giorni fa Azzurra rischiava ancora la vita. Le ustioni possono produrre infezioni fatali. Soprattutto sono preoccupati per il futuro. I medici hanno detto che ci vorrà almeno un anno e mezzo di terapie. Potrebbero essere necessari altri interventi. Magari in altri ospedali, lontani da qui. E saranno alte spese. Perché dovranno seguirla. Le cicatrici vanno poi trattate con creme speciali, con fasce terapeutiche. Fin quando la pelle non si ricrea, non ci si può lavare nemmeno l’acqua. Servono detergenti apposta. Tutte cose che il Servizio sanitario nazionale non passa. «Non so come faremo», dice Giuseppe. E per la prima volta non sorride.