Dino Cofrancesco, Libero 27/6/2012, 27 giugno 2012
GUGLIELMO GIANNINI
La figura di Guglielmo Giannini è moltopiù complessa di quanto non si sia scritto. Che fosse un uomo di teatro, un cineasta, uno scrittore di gialli, un canzonettista, è certo ma era proprio così digiuno di politica e così incolto in fatto di storia, di diritto, di economia, come si è spesso sostenuto? (...) Il rientro spirituale di Giannini nell’universo politico comincia - prima ancora che nella Resistenza romana, tra le file del partito repubblicano - nel 1942, quando l’amatissimo figlio Mario perde la vita nella guerra voluta da Mussolini. È allora che inizia la sua dolente meditazione sul cinismo dei politici che si tradurrà in un librone prolisso, amaro, oscillante tra spunti decisamente libertari e dissacranti e nostalgia della perduta dimensione comunitaria, La folla. Seimila anni di lotta contro la tirannide (Roma, Ed. Lo Faro, luglio 1945). «Quest’opera», si legge nella dedica che, potrebbe dirsi, ne compendia lo spirito morale e l’ambizione teorica, «è dedicata/ a una meravigliosa creatura d’amore/ Mio figlio Mario/ che cessò di vivere/ all’età di ventun anno undici mesi/ diciassette giorni/ nel pieno della salute e della bellezza/ il 24 aprile 1942/ Una versione ufficiale dice/ ch’egli cadde nell’adempimento del proprio dovere/ verso la patria/ ma in realtà fu assassinato/ insieme a milioni di altri innocenti esseri umani/ da alcuni pazzi criminali/ che scatenarono la guerra ». Giannini si prende la sua vendetta in maniera rabbiosa con l’attitudine della nonna dello scrivente - e di tante altre donne italiane - che raggiungendo il rifugio antiaereo, ogni volta che le fortezze volanti anglo-americane venivano a bombardare i nostri centri abitati, alzava gli occhi al cielo e imprecava sgomenta: «Maledetti tutti!». Se non ci fossero gli uomini politici professionali - gli upp - non ci sarebbero le guerre, ragiona l’autore de La Folla, tagliando la storia universale con l’accetta. Pertanto «Mandiamoli tutti in un campo di concentramento dove possano sfogarsi a eleggere chi vogliono a capo del campo, e sorteggiamoci noi, con calma e senza seccature quel migliaio di deputati e senatori di cui abbiamo bisogno». (...) Deputati e senatori Agli uomini qualunque - di cui la «folla» è il simbolo - occorrono solo «persone che sanno governare, e che di fatto governano, illuminandoci le strade di notte provvedendo a che le fognature funzionino,e che le derrate arrivino sui mercati e a tutti gli altri bisogni pubblici» e un migliaio di «deputati e senatori eletti dalla sorte e tratti dalle categorie che costituiscono la Comunità » in grado di controllarne l’opera. «I mille galantuomini discuteranno e decideranno fra loro: e, se sbaglieranno, tre anni dopo, due anni dopo se è possibile, gli altri mille galantuomini che saranno sorteggiati al loro posto rettificheranno facilmente l’errore, giovandosi dell’esperienza fatta e senza essere influenzati né dal rancore verso i predecessori che non hanno dovuto combattere per sostituire, né dall’umano desiderio di rimanere il più a lungo possibile al posto conquistato, perché sanno che, tre o due anni dopo, a loro volta, dovranno andarsene». Grazie a questo «Stato amministrativo » - che ricorda, ma solo in parte, lo Stato minimo dei libertari americani - il Paese non dovrà più sopportare gli alti «costi della politica» e potrà, quindi, permettersi la massima libertà di accoglienza e di congedo: chi vuol venire, sia benvenuto; chi se ne vuole andare sappia che la secessione non è vietata. (...) Ma procediamo con ordine. Il 27 dicembre 1944, in un’Italia ancora divisa in due, Giannini decide di fondare un settimanale (in formato quotidiano), preso da un’incontenibile passione di far sentire la sua voce di «uomo qualunque», vittima del fascismo e diffidente dei progetti palingenetici dei partiti antifascisti, che fanno temere altre mobilitazioni, altri sacrifici, altri rinvii del sospirato ritorno alla normalità. Il giornale va a ruba: dalle venticinquemila copie del primo numero, si arriverà, nel maggio del 1945, alle ottocentocinquantamila. (...) Punture ai potenti Alla gente non sembra vero trovare un interprete così spiritoso, efficace e immediato dei suoi bisogni elementari e naturali. Giannini, inoltre, nella sua rubrica «Le Vespe», dà fondo alla sua vena partenopea, alterando i nomi dei suoi avversari politici - Piero Caccamandrei, Luigi Servitorelli, Mario Perdiguerra, Fessuccio Parmi ecc. - o ribattezzando i partiti rivali - i comunisti, già camerati, diventano i «cameragni», i democristiani, i «demofradici cristiani» ecc. C’era in lui del «tersitismo» - il dileggio dei potenti - ma soprattutto quella desacralizzazione della politica (...), che, comunque la si voglia giudicare è una conditio sine qua non di una democrazia liberale, laica, senza complessi, dove i rappresentanti del popolo sono «persone come noi». (...) L’operazione di Giannini non solo riesce ma supera le sue stesse aspettative. Il Fondatore dell’U.Q. viene sempre più assediato e quasi costretto a convogliare i molti,entusiastici consensi, in un movimento politico, che nascerà nel febbraio del 1946 adottando lo stesso simbolo del periodico, il torchietto fiscale che spreme un omino atterrito dalle cui tasche escono alcune monete. (...) Senza gli slogan tanto rozzi quanto efficaci (e, riconosciamolo, spesso divertenti) di Giannini, senza l’uso di un linguaggio immediato, diretto, che non si faceva scrupolo a citare le parti basse del corpo umano - attirandosi l’antipatia, non poco indicativa di diverse antropologie etico-politiche di Giovannino Guareschi che gli dava del «pornografo» -, senza la full immersion in una quotidianità in cui lettori e ascoltatori si ritrovavano come a casa, come avrebbe potuto l’U.Q. convogliare le speranze e le attese della «gente meccanica e di piccolo affare»? La seconda grande intuizione di Giannini - legata alla sua frequentazione professionale del mondo dello spettacolo - è costituita dalla sicurezza con la quale individua, a differenza dei suoi contemporanei, che si è aperta una nuova era, quella dei media, che impone alle squadre politiche in competizione di giocare sul suo terreno. (...) Qualcosa di liberale Se si dovesse sintetizzare in una battuta la natura del qualunquismo, si dovrebbe definirlo «un liberalismo plebeo rivestito di abiti populisti» ma consapevole, a differenza dei tradizionalisti del liberalismo, del mutamento dei tempi e delle società e della correlata necessità di ripensare i modi di far politica, prendendo in seria considerazione, sotto il profilo tecnico, i nuovi strumenti di comunicazione di massa e, sotto quello psicologico e sociale, la voglia diffusa di abbattere i piedistalli da cui parlavano gli upp e facevano calare prescrizioni e moniti i loro intellettuali. La volgarità del movimento era, anche, una delle espressioni della «laicizzazione degli spiriti», la fine dei privilegi del potere e del sapere, che possono schiacciare l’uomo qualunque, con il loro denaro e le risorse della loro istruzione, ma non possono pretendere su di lui una qualsiasi superiorità morale e un diritto innato di guida e di comando. Col qualunquismo, insomma, sembra giunta al capolinea della storia l’era dei «chierici». La revanche di quanti hanno perso status e prestigio sociale, garantiti da un mondo di notabili e di «ricchi da sempre», sono la «cultura del piagnisteo», e la deplorazione dei livelli sempre più bassi della moralità pubblica. Oggi come nell’immediato secondo dopoguerra, i chierici possono dire col vecchio conte, protagonista del racconto di Honoré de Balzac Le Cabinet des Antiques, quando vede passare la carrozza reale che porta Carlo X in esilio: «Hanno vinto i Gallo-Romani!», ovvero i qualunquisti. In realtà si è fatta valere la profonda eticità del principio democratico «un uomo, un voto», di cui hanno cominciato a servirsi ben presto, sotto la guida di uno stravagante autore di romanzi, commedie e film gialli, anche quanti erano stati tenuti fuori della porta.