Ferdinando Camon, Avvenire 01/07/2012, 1 luglio 2012
MORTE E IMMORTALITA’ SECONDO HOLLYWOOD
Adesso c’è anche un cane tra gl’immortali della Walk of Fame di Los Angeles: il cane protagonista del film The Artist. Nel film fa di tutto, legge nel cervello del padrone, gl’impedisce di suicidarsi, chiama la polizia. Il film ha avuto l’Oscar, ma il cane non era ammesso alla cerimonia nel Kodak Theatre, una (per me) delle più brutte costruzioni del mondo. Hollywood è la fabbrica dell’immortalità nel cinema. La strada su cui sono incastonate le stelle, ognuna col nome di un grande artista, attore sceneggiatore regista o cantante, è (per me) una delle più brutte strade del mondo, orrida nell’architettura su ambedue i lati, case negozi ristoranti, è tutto sciatto e pacchiano, ma lì è il centro del mercato mondiale del cinema. Impossibile, camminando per la strada, non tener gli occhi a terra, e non leggere i nomi incisi sulle stelle. La garanzia dell’immortalità è qui. Avere il nome in una stella, vuol dire far pronunciare il proprio nome alle infinite migliaia di appassionati che transitano.
Foscolo pensava che per essere immortali bisogna stare in Santa Croce, o nei templi dove sono i Grandi. Per il cinema, il tempio dei Grandi è questo. Brutto, deprimente, ma funziona.
E adesso, tra gli immortali, c’è anche un cane. Non c’è il suo muso, ma ci sono le impronte delle sue zampe. Han tenuto il cemento fresco, e prima che facesse presa il cane ha calcato una alla volta le sue zampe sulla pasta molle. Indossava un collare dorato e un papillon. Dicono gli inviati che le sue zampe sono impresse tra i nomi di Marilyn Monroe, John Wayne e Clark Gable. Non lo so, controllerò la prima volta che torno a Los Angeles. Se i nomi son quelli, il nome più famoso è di un’attrice bravissima nel suo mestiere, ma morta per il suo mestiere. Perché questo è un mestiere che uccide. Scuote mente cuore nervi e cervello, e alla fine distrugge. Non sappiamo se la povera Marilyn sia morta o si sia uccisa, ma, freudianamente, che differenza fa? La strada sulla quale camminava aveva questo doppio sbocco: la morte e l’immortalità.
Per il cane Uggie è la stessa cosa. Ha stampato le sue quattro zampe sul cemento e s’è ritirato dalla professione: non reciterà più. È diventato nevrotico, dicono gli psicologi, perché esistono anche gli psicologi canini. Non sopporta più set, ciak, ordini, carezze, complimenti, rimbrotti. Ne ha abbastanza. Ora vuol soltanto morire in pace. Non so se ha un cervello similumano, ma se ce l’ha, da brava creatura hollywoodiana muore più in pace ora che ha l’immortalità. Lì vicino, a un quarto d’ora di distanza a piedi, c’è il cimitero chiamato Hollywood Forever.
Un poeta americano che scrivesse i suoi ’Sepolcri’ lo metterebbe al centro del poemetto. È un cimitero enorme, con tombe sontuose, ogni tomba è un monumento, e ogni morto è raffigurato nell’apice della sua vita. Un astronauta ha il suo missile. Un poeta la sua macchina per scrivere. Ogni tomba racconta una gloria. Ci sono tombe con un video, tu accendi il video e sul monitor la nobile signora sepolta lì scende da una scala e ti viene incontro, ti mostra il meglio della sua vita, ville, cani, nipotini: è come se fosse viva e ti ospitasse in casa.
In questo quartiere di Los Angeles che si chiama Hollywood l’immortalità non è una vita dopo la morte, ma è una vita che non muore. È il concetto d’immortalità dei ricco-borghesi: non c’è che questa vita, non facciamola finire. Se ammettessimo che finisce, diventeremmo pazzi. C’era un uomo seduto su una tomba, l’ultima volta che ci sono stato. Avevano seppellito sua moglie, il corteo s’era appena sciolto. Solo, sgomento, consunto, sperduto, ha visto che lo guardavo e con la mano m’ha indicato la tomba per dirmi: «E adesso?» Eh lo so, lì non c’è una risposta. Non a Hollywood.