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 2012  giugno 30 Sabato calendario

L’Italia non è solo una grande squadra. È un grande Paese. E forse sarebbe sufficiente, tanto per non avvelenarci la vita, che tutti ne fossero più consapevoli e orgogliosi

L’Italia non è solo una grande squadra. È un grande Paese. E forse sarebbe sufficiente, tanto per non avvelenarci la vita, che tutti ne fossero più consapevoli e orgogliosi. Nella notte in cui gli occhi erano puntati su Varsavia, a Bruxelles abbiamo ritrovato quel ruolo da protagonisti nell’Unione Europea che si era perso in tanti anni di pallide apparizioni. Il merito è di Mario Monti. E forse coloro che hanno pensato in questi giorni di togliergli la fiducia, dovrebbero riconoscere che chiunque al suo posto non avrebbe ottenuto nulla di più della personale cortesia dei partner. Un’Europa con un’Italia più ascoltata, anche se non ancora più forte, può affrontare meglio la crisi dell’euro. Non l’ha ancora risolta, ma per la prima volta ha mostrato ai mercati, sorprendendoli, una determinazione che tanti summit falliti rendevano quasi inimmaginabile. La reazione positiva delle Borse lo testimonia, anche se è prematuro illudersi. Un inedito asse mediterraneo tra Francia, Italia e Spagna ha costretto la Germania a guardare la cartina geografica e le statistiche economiche da una prospettiva diversa. Non è poco. Il volto scuro della signora Merkel non era solo quello di una tifosa delusa. Il patto per la crescita impegna 120 miliardi: l’effetto moltiplicatore dell’occupazione e del reddito non sarà decisivo ma nemmeno trascurabile. Con l’incognita di quanti siano veramente i capitali freschi a disposizione. La vigilanza unica bancaria, con il coinvolgimento della Bce, la banca centrale europea, e il finanziamento diretto degli istituti spagnoli in difficoltà da parte del fondo Esm (European Stability Mechanism) possono interrompere, o quantomeno allentare, il circolo vizioso tra debiti sovrani e debiti privati che è alla base della patologia della moneta unica. A Deauville, nell’ottobre del 2010, Merkel e Sarkozy fecero l’errore di coinvolgere i privati nella crisi greca e da lì il contagio sui mercati fu inarrestabile. Lo scudo anti-spread è la novità più rilevante, ed è mal digerita dai tedeschi, sempre contrari a qualsiasi forma di condivisione del debito altrui, eurobond compresi. Sulla funzionalità di questo meccanismo, che dovrebbe intervenire acquistando titoli pubblici dei Paesi virtuosi per ridurne i rendimenti eccessivi, è opportuno mantenere alcune riserve. In particolare sull’ammontare della dotazione, sulle relative garanzie, sull’interpretazione dei trattati e sulla loro condizionalità. Monti, che lo ha fortemente voluto, assicura che l’Italia non se ne avvarrà, almeno per ora. E spiega che i richiedenti non saranno costretti a cedere sovranità, come avviene per chi si rifugia tra le braccia strette del Fondo monetario, creditore privilegiato che impone un duro programma di risanamento (il consiglio che fu dato caldamente a Berlusconi e a Tremonti al drammatico, per noi, vertice di Cannes dello scorso anno). Al di là degli aspetti tecnici e dei dubbi della Bce e dello stesso Draghi, il significato politico più importante di questa misura è l’affermazione dell’ineluttabilità della moneta unica che va protetta anche da eccessivi divari nel costo del denaro pagato dagli Stati membri. Un passo avanti sulla strada tracciata dell’unione politica e fiscale. Un dividendo prezioso per l’Italia, che non può essere disperso con il solito atteggiamento accidioso e particolaristico di partiti e corporazioni. Il cammino delle riforme, non solo economiche, è ancora lungo. I compiti non sono finiti, il tempo quasi.