Stefano Lorenzetto, Panorama 29/6/2012, 29 giugno 2012
Il precario chiamato Marconi– Lo volevano al Massachusetts institute of technology di Boston. Da almeno dieci anni l’Università di Vienna gli fa la corte
Il precario chiamato Marconi– Lo volevano al Massachusetts institute of technology di Boston. Da almeno dieci anni l’Università di Vienna gli fa la corte. Quelle di Glasgow e Uppsala idem. L’articolo pubblicato dal New Journal of Physics che ha consacrato la sua invenzione, benché più complicato da decrittare della Stele di Rosetta, è già stato scaricato da oltre 100 mila internauti. I più importanti media del pianeta, da Nature alla Bbc, dal Monde al Daily Telegraph, dall’Huffington Post al Corriere della sera, l’hanno proclamato «il nuovo Marconi». «Ma per favore! Questa è usurpazione di titolo» svia da sé le volute d’incenso. Fabrizio Tamburini, l’astrofisico di origini veneziane che con la teoria del «fusillo» è riuscito a moltiplicare il numero dei canali di trasmissione radiotelevisivi, satellitari, wi-fi da un minimo di 11 sino all’infinito, non ha modificato di un’unghia il suo stile di vita. Continua a lavorare come precario («è dal lontano 2002, ormai») nel dipartimento di fisica e astronomia dell’Università di Padova a 1.380 euro mensili di stipendio. Continua ad aspettare che gli rinnovino ogni sei mesi il contratto di ricercatore, in modo da non interrompere la collaborazione col Laboratorio per la nanofabbricazione di nanodispositivi diretto dal professor Filippo Romanato, che ha sede nell’Area Cnr di Padova. Continua, da celibe impenitente, il suo fidanzamento con Cici, Coco e Dino, i tre gattini che ha adottato dopo averne visto morire la madre per un boccone avvelenato. Continua a tenere sul cellulare le suonerie che s’è creato da solo estrapolando le migliori battute dai film del ragionier Ugo Fantozzi, tranne la più celebre, che è anche un’icastica recensione della Corazzata Potëmkin. Insomma, continua come se nulla fosse e come si conviene a un magnifico mecenate che ha ceduto gratuitamente la proprietà del suo brevetto, e quindi lo sfruttamento industriale, all’ateneo patavino. «Per legge avrebbe potuto non farlo» ne tesse le lodi Romanato. «Venesiani gran signori» recita l’antico adagio. E Tamburini, nato 48 anni fa vicino al ponte di Rialto, è tale fin dall’aspetto, con quel vistoso anello al dito, una corniola su cui è inciso il profilo di un efebo, incastonata su una montatura che nel fondello reca lo stemma del suo casato, cesellato dal padre Sergio, discendente da una dinastia settecentesca di orafi. Eppure Tamburini avrebbe potuto ricavare dalla sua invenzione quattrini a palate: «Un funzionario del governo svizzero mi ha invitato a portare il dossier a Ginevra. Sono stato convocato dall’Itu, l’International telecommunication union dell’Onu. Si sono fatti vivi Anton Zeilinger, il fisico austriaco del teletrasporto quantistico; l’Università di Princeton, dove insegnava Albert Einstein; l’Eth, il Politecnico federale di Zurigo; la Macquarie University di Sydney. E poi Rai, La7 e Mtv; decine di compagnie statunitensi ed europee; istituti di ricerca e colossi delle comunicazioni cinesi...». Romanato lo interrompe: «Basta così, basta così». Deve trattarsi di roba grossa, se per ciascun contatto Tamburini è stato obbligato a firmare altrettanti Nda, ossia «non-disclosure agreement», accordi che vincolano le parti a mantenere la segretezza sulle informazioni confidenziali scambiate, con pesanti clausole penali. In che cosa consiste l’invenzione? Nell’aver dimostrato che i segnali radiotelevisivi possono essere propagati a vortice, come se fossero fusilli, anziché a piani lineari paralleli. Siccome ogni vorticità ha un suo passo, si sfrutta questa peculiarità per mandare sulla stessa frequenza un numero infinito di canali. Attualmente, invece, su ciascuna frequenza vi è un solo canale di trasmissione. E come lo ha dimostrato? Con un esperimento pubblico, condotto a Venezia, al quale ha assistito la figlia di Guglielmo Marconi, Elettra. Ho trasmesso due segnali sulla stessa frequenza grazie alla vorticità: dalla torretta della Compagnia della vela, sull’Isola di San Giorgio, al Palazzo Ducale. È servita un’antenna particolare, costruita artigianalmente. Ho deciso di chiamarla «antenna vorticosa». Ma la vorticità non era già stata dimostrata dal fisico siciliano Ettore Majorana, sparito misteriosamente nel 1938? Aveva cominciato a studiarla nel 1909, per l’esattezza. Io ho completato i suoi calcoli. Che fine pensa abbia fatto Majorana? Secondo me ha preso i voti. Era uno scienziato geniale, ma introverso: soffriva di attacchi di panico. Ho parlato con suo nipote, Fabio Schulze, e mi ha spiegato che lo zio era molto religioso, non si sarebbe mai suicidato. Più probabile che abbia scelto di sparire dal mondo ritirandosi in un convento di clausura. Anche lei viene da un convento, in qualche modo. Sì, quello veneziano di San Nicolò del Lido, dei frati francescani, dove si riuniva un gruppo di astrofili. È lì che ho cominciato a studiare il cosmo. La passione m’era venuta una sera d’agosto a Pieve di Cadore. Avevo 4 anni. Mio padre mi issò sulle sue spalle per farmi ammirare la Via lattea. Io ci rimasi male, perché pensavo che da quell’altezza avrei visto le stelle più vicine. «Ma sono ancora lontane!» protestai. Così qualche giorno dopo papà mi comprò un piccolo telescopio. Dati i suoi trascorsi, sarà meno insensibile di Margherita Hack all’ipotesi che lo spazio infinito non sia frutto del caso. Non mi pongo il dilemma. Entrambe le ipotesi, la creazione e il caso, sono valide fino a prova contraria. Quando ha smesso di frequentare i fraticelli veneziani? Quando mi sono iscritto alla facoltà di scienze a Padova, dove nel 1999 mi sono laureato in astronomia con una tesi sulla cosmologia quantistica. Accidenti, si è laureato a 36 anni. Per un lungo periodo ho rallentato gli studi per fare il collaudatore di auto a Imola e a Varano de’ Melegari. Ho testato le Alfa 155 e Gtv, e molti prototipi che non sono ancora usciti. Con uno ho toccato il mio record: 324 chilometri orari. Dopodiché mi sono ributtato a capofitto sull’astronomia e ho concluso il dottorato di ricerca fra Trieste e Portsmouth col supervisore di Stephen Hawking, Dennis Sciama, che fu l’ultimo a lavorare con Albert Einstein sui super orizzonti. «Sono contento che sia un problema tuo e non mio» gli disse il suo maestro sul letto di morte, a proposito dei buchi neri. Alla fine avrei avuto anche un posto al Mit di Boston. Ma sono dovuto rientrare in Italia per curare i miei genitori, malati di cancro, che poi sono morti. Uno strazio durato sette anni. Mi è costato due infarti da stress. Quali sono le applicazioni pratiche della sua invenzione, l’«antenna vorticosa»? È pensata per il broadcast: quindi per la radio, la televisione, internet. Per capirci: oggi sul canale 100 di Sky si vede il «Tg24». In futuro? Si potrebbero vedere come minimo 10 canali aggiuntivi. Metta di decuplicare i 999 canali satellitari presenti sul decoder: diventerebbero 9.990. Aumentabili però all’infinito. Ma non è in ballo solo l’allargamento dell’offerta televisiva. Più canali e migliore qualità di trasmissione consentono anche d’incrementare le comunicazioni a distanza. Il telelavoro diventerebbe un fatto di routine: chi volerebbe più dall’altra parte del globo se, a costi irrisori, potesse vedere su uno schermo dell’ufficio le persone che vuole incontrare? Il calo della mobilità farebbe crollare i livelli d’inquinamento planetario. Non solo: la moltiplicazione dei canali sulla stessa frequenza non richiede l’aumento della potenza di trasmissione, quindi fa diminuire lo smog elettromagnetico. La vorticità rende inutili le fibre ottiche? No. Le tecnologie non si annullano mai a vicenda: si completano. La vorticità offre un grado di libertà in più. Per esempio favorisce la diffusione via satellite di internet nelle zone più impervie, dove non si possono portare né le fibre ottiche né il doppino dell’adsl. Si potrebbe utilizzare anche per le comunicazioni telefoniche? Certamente. Oggi i cellulari passano attraverso un imbuto assai stretto. Basti pensare a che cosa accade quando alla mezzanotte del 31 dicembre ci mettiamo a telefonare tutti insieme nello stesso istante per farci gli auguri: per il sovraccarico risulta impossibile prendere la linea. Le onde vorticose permettono di accrescere il numero dei canali. E migliorano anche la qualità delle videochiamate, oggi limitata dai volumi di traffico. Ma telefonini e wi-fi sono pericolosi per la salute? Dipende dall’intensità, dalla frequenza e dal tempo di esposizione. In casa il rischio è molto basso. Tra l’altro, in passato i cellulari avevano una potenza mostruosa, oggi no, quindi fanno meno danni. I suoi colleghi la guardano con maggior deferenza, da quando ha dimostrato la vorticità delle onde radio? Non è che li frequenti molto. I fisici sono topi di laboratorio. E i suoi allievi? Mah, non saprei. Faccio quello che ho sempre fatto. Ieri ho portato gli studenti del corso di astronomia all’osservatorio di Cima Ekar, ad Asiago. Ho passato dieci anni della mia vita, lassù. Perché non ha proseguito i suoi studi all’estero? Dopo due infarti? E poi questa è l’università dove insegnava Galileo Galilei, il mio idolo. Posso ancora accarezzare la sua cattedra. E non dimentico che il mio direttore, Romanato, era a Singapore a occuparsi di nanotecnologie: è tornato su chiamata dell’ateneo di Padova. E ha costruito per me le lenti del telescopio. Siamo il Paese dei Guglielmo Marconi e degli Enrico Fermi costretti a emigrare. Per una volta che una buona idea nasce in Italia, sarebbe un delitto portarla via. Però al Mit di Boston avrebbe avuto a disposizione un finanziamento da 20 milioni di dollari della Darpa, l’agenzia del Pentagono che si occupa di ricerca avanzata per la difesa. Siamo stati noi a informare la Darpa degli studi sulla vorticità in corso a Padova. «Interessanti » fu la risposta, rimasta però senza seguito. Adesso ho ricevuto una email di congratulazioni: «Pensavamo di fare anche noi entro il 2012 una dimostrazione sulla vorticità delle onde radio». Fa piacere. Li abbiamo battuti sul tempo spendendo 10 mila euro, appena un quinto dei quali in attrezzature. Poteva almeno mantenere la titolarità del brevetto, invece di cederla gratis all’Università di Padova. Resterò comunque l’autore, per sempre. Non sono né un benefattore, né uno sprovveduto, né un cretino. Penso che alla fine si farà uno spin-off con l’ateneo e con le industrie che vorranno starci. Intanto resta un precario a 1.380 euro mensili. Non potrò immolarmi in eterno. n (stefano.lorenzetto@mondadori.it)