Fabrizio Paladini, Panorama 28/6/2012, 28 giugno 2012
POMIGLIANO
Noi siamo quello
che facciamo». È
scritto sui muri a
mo’ di slogan da
fabbrica del realismo
socialista o
del più moderno
realismo liberista,
fate voi. Ma lo stesso
slogan è scritto
anche, qua e là,
fra le centinaia di
Post-it attaccati dai
singoli operai sui
pannelli delle proposte,
delle idee,
dei miglioramenti
suggeriti ai manager per rendere il lavoro
più semplice o più economico. Ed è scritto,
a caratteri ben chiari, anche nella mente e nel
cuore di molti dei lavoratori dello stabilimento
Fiat di Pomigliano d’Arco. È questa la pietra
dello scandalo, lo stabilimento che cambia
e cambierà per sempre il modo di pensare e
interpretare una fabbrica metalmeccanica, il
modello di sviluppo del futuro, il prototipo
che verrà esportato in tutta la galassia Fiat.
Su Pomigliano si sta combattendo una
grande battaglia. Per ora l’ha persa una grossa
fetta di lavoratori in cassa integrazione a
meno di 1.000 euro al mese da anni. Molti
di questi, inutile farsi troppe illusioni, non
saranno mai riassunti. Oggi al Giambattista
Vico (così è stata rinominata la fabbrica) lavorano
2.135 persone, più o meno la metà di
quanti erano impiegati nel 2009, quando qui si
assemblavano le Alfa 159 e 147. Alcuni sono
andati in pensione, altri sono stati assorbiti da
aziende fornitrici e circa 1.500 sono rimasti
senza lavoro. Ammesso che il mercato, ai
minimi dal 1980, possa espandersi fino alla
massima capacità produttiva su tre turni di
lavoro (oggi sono due per una produzione di
700 Panda al giorno), è probabile che qualche
centinaio di operai resterà fuori.
È una battaglia persa dalla Fiom, il sindacato
dei metalmeccanici della Cgil, che
non ha firmato l’accordo ed è quindi rimasto
escluso da ogni rappresentanza sindacale. Un
conflitto contro un modello completamente
nuovo di organizzazione industriale, il World
class manufacturing che la Fiat vuole introdurre
in tutti i suoi stabilimenti. E che prevede
anche una nuova ergonomia, l’Ergo-Uas. La
Fiom ci ha messo più di un anno per accettare
i 18 turni a settimana, ma è stata intransigente
sulle altre modifiche: la riduzione delle pause
(erano due da 20 minuti ciascuna, ora sono
tre da 10 minuti per turno), la mensa fissata
a fine turno anziché a metà, i maggiori controlli
(e sanzioni) su malattie e permessi, una
commissione che valuta la legittimità degli
scioperi, una nuova organizzazione del lavoro,
l’uscita dal contratto nazionale collettivo.
La Fiom non ha fatto mediazioni o forse
non ha capito che i margini di trattativa erano
molto più ridotti che in passato. Perfino la
Cgil campana invitava il 23 giugno 2010 gli
operai a votare sì al referendum sull’accordo,
mentre Maurizio Landini catechizzava per
il no. Hanno vinto i sì con il 62 per cento e
la Fiom si è sentita pugnalata alle spalle. La
battaglia l’hanno vinta innanzi tutto i 2 mila
lavoratori (età media 37 anni) che sono stati
riassunti vedendo così terminare l’angoscia
della precarietà che trasmette la cassa integrazione.
E poi, ovviamente, l’ha vinta Sergio
Marchionne che ha avuto il suo stabilimento
moderno, efficiente, sicuro, versatile.
A sei mesi dall’inizio della produzione
della Nuova Panda (a oggi sono state prodotte
circa 50 mila vetture), Panorama è andato a
vedere come si vive dentro Pomigliano, che
cosa pensano gli operai, quali sono i carichi
di lavoro, quali le aspettative, qual è l’angoscia
dei tanti rimasti fuori. All’ingresso del Giambattista
Vico c’è Sebastiano Garofalo, direttore
dell’impianto: «Potete visitare ogni reparto,
parlare con chi volete e fotografare ovunque.
Non abbiamo consensi da costruire. Andate e
chiedete». In lastratura (quella che una volta si
chiamava saldatura) lavorano quasi solo robot:
sono più di 600. Tocca a loro saldare scocca,
fiancate, tetto e avvitare sportelli e cofani. Per
la Nuova Panda sono previsti oltre 3 mila punti
di saldatura. Dice Paolo De Fazio, capounità:
«Il reparto è molto flessibile. Oggi saldiamo la
Panda, domani potremmo assemblare tutti gli
altri modelli Fiat o Lancia o Alfa. Abbiamo una
capacità produttiva massima di 1.300 auto al
giorno, 60 ogni ora. Inoltre la manutenzione
dei robot è semplice: sono tutti uguali e quindi
facili da gestire». Ma l’impatto con la nuova
fabbrica è al montaggio. La vecchia catena di
Gianmaria Volonté ne La classe operaia va in
paradiso («Un pezzo, un culo» ripeteva ossessivo
il suo personaggio cercando di concentrarsi
sull’automazione) è preistoria.
Il cronista sceglie a caso: Giovanni Albani
ha 29 anni ed è in Fiat dal 2007. Ha una felpa
bianca con scritto «Team leader»: «Sono a
capo di un gruppo di sei operai. Coordino
il loro lavoro, risolvo quesiti, assegno ferie e
permessi, controllo l’efficienza. Una piccola
qualifica che serve per il morale: vuole dire
che l’azienda crede in me». I sei del suo
plotoncino gli si avvicinano per segnalare
piccole anomalie, ritardi. Lui li aiuta, spiega
loro come fare. Cento metri avanti c’è Nunzia
Zeno, 38 anni, da 12 in Fiat. Sulla sua felpa c’è
scritto «Supervisor», un quadro intermedio a
cui fanno riferimento 10 team leader: «Sono
molto orgogliosa. Pomigliano era considerata
l’ultima delle fabbriche Fiat, adesso è la più
moderna. E io sono parte di questo successo».
La prima rivoluzione è nell’organizzazione
del lavoro. Una volta c’erano gli operai e i
dirigenti, adesso è stata creata una piramide
con molti ruoli. «Ognuno è stato più responsabilizzato
e quindi si sente più utile e quindi
ama di più il proprio lavoro» dice Garofalo. A
ottobre hanno chiamato un gruppo di operai
della vecchia Alfa per l’addestramento, li
hanno coinvolti nella progettazione delle
risparmiare fatica, per ottimizzare il lavoro.
E per risparmiare anche denaro. È nata la
parete dei Post-it, con tutti i suggerimenti
per rendere il lavoro meno gravoso e più
semplice: «Noi siamo quello che facciamo»
ripetono orgogliosamente i giovani.
La Nuova Panda si costruisce con 1.640
pezzi, dalla rondella al sedile, dal volante al
cavo elettrico. In tutte le postazioni si sono
volute privilegiare ergonomicità e sicurezza.
Gli incidenti sul lavoro sono praticamente
inesistenti e la grande pinza gialla che tiene
sospesa l’auto in costruzione si muove, si
alza, ruota e porta la parte in lavorazione
all’altezza giusta per evitare
sforzi eccessivi. Anche il lavoro
muscolare è stato ridotto
e dove c’è da montare
qualcosa di più pesante
c’è sempre l’ausilio di
una macchina. Ogni
operaio è seguito
o preceduto da
un carrellino
con tutti i
componenti
da montare per
evitare inutili spostamenti.
Quanto all’alienazione da catena,
in alcune stazioni dove lavorano gli operai
più giovani e meglio addestrati ogni giorno si
ruota e si prende il posto del compagno per
evitare la ripetitività. Altri lavoratori, spesso i
più anziani, preferiscono non cambiare perché,
dicono, si sentono più sicuri. Decidono
in piena autonomia i team leader.
Nella vecchia Alfa di Pomigliano l’assenteismo
aveva una media del 10-11 per
cento (50 quando giocavano il Napoli o la
Nazionale). Oggi è allo 0,9 per cento. Paolo
Picone, giornalista che collabora con Il Sole
24 ore e Radio 24, autore di Per grazia ricevuta,
libro che ripercorre la
battaglia sindacale di Pomigliano:
«Quelli che sono
rientrati sono pieni di
entusiasmo, lavorano
con impegno: e non
vogliono lasciarsi
sfuggire questa
opportunità.
Fra l’altro le
retribuzioni
sono aumentate
tra il 15 e
il 20 per cento».
Nell’altra Pomigliano i cassintegrati
aspettano. Il direttore Garofalo dice che se
nel 2013 il mercato crescerà sarà possibile
assumere altri operai. Ma Stefano Birotti,
Fiom, in cassa dal 2008, non è d’accordo: «I
cassintegrati sono molti di più, nonostante
avessero detto che saremmo stati riassorbiti
tutti. E quelli che sono rientrati lavorano in
condizioni ben peggiori di prima». Mario
Di Costanzo, Fiom, in cassa dal 2009 a zero
ore, rincara: «L’accordo firmato dagli altri
sindacati non è stato mantenuto perché
non hanno garantito il livello di occupazione:
la cassa terminerà e noi andremo
in mobilità, cioè saremo licenziati. Dov’è il
piano Marchionne che parlava di 20 miliardi
di investimenti?». Intanto i giudici hanno
pignorato sui conti correnti della Fiat le
somme dovute ad alcuni operai Cobas che
erano stati licenziati nel 2006, reintegrati e
poi rimessi in cassa integrazione.
Al Giambattista Vico chi può si tiene
stretto il lavoro. Un’altra era rispetto al 1975,
quando Daniele Sepe suonava con il Gruppo
operaio di Pomigliano d’Arco la tammurriata:
«Una lotta aggio da fa’, una lotta aggio da fa’».
Ora il ritornello è: «Noi siamo quello che
facciamo». (ha collaborato Maria Pirro)