Valerio Castronovo, Il Sole 24 Ore 29/6/2012, 29 giugno 2012
IL «DEBITO» DELLA GERMANIA NEI CONFRONTI DELL’EUROPA
Adesso che tanto la Bce e i vertici della Commissione europea quanto la Casa Bianca continuano a premere su Berlino, c’è da sperare che, nel summit di Bruxelles, Angela Merkel dia un segno concreto di disponibilità all’adozione di qualche ricostituente per il rilancio economico e politico della Ue. La camicia di forza di un rigore categorico, senza alcun margine di manovra, rischia infatti di estendere la recessione a macchia d’olio e di mettere a repentaglio la sorte dell’euro. Finora il governo di Berlino sembra agire come se la Germania sia una sorta di pianeta a sé stante, autoreferenziale e compiaciuto della sua forza. Purtroppo, non è la prima volta che, nel corso della sua storia, la Germania coltiva e ostenta questo genere di vocazione, malgrado le nefaste conseguenze, per se stessa e per gli altri, scaturite da un simile convincimento. Ma senza stare a rinvangare certe tragedie ben note di un lontano passato, e limitandoci alle vicende successive al secondo dopoguerra, sono numerosi e importanti i motivi che dovrebbero oggi indurre i tedeschi a dar prova di maggiore responsabilità e lungimiranza nei rapporti con i loro partner. Come non ricordare, innanzitutto, che nel 1946 non solo Stati Uniti ma Gran Bretagna e Francia decisero di non imporre alla Germania riparazioni di guerra punitive? E che Winston Churchill, al Congresso del maggio 1948 per la creazione di un’Assemblea europea sovranazionale, volle che vi partecipasse una folta delegazione tedesca capeggiata da Konrad Adenauer? E che questo fu il primo passo per la riabilitazione della Germania in sede internazionale? E, ancora, che furono le Potenze occidentali a insistere nel maggio 1949 presso i governatori dei Länder affinché procedessero alla stesura di una costituzione federale, che consentì due mesi dopo la creazione della Bundesrepublik, senza la quale i tedeschi dell’Ovest non sarebbero tornati padroni del proprio destino sotto le insegne di una democrazia liberale? E, se è vero che, dopo l’ammissione nel 1955 nel Patto Atlantico, la Germania federale venne a costituire un solido contrafforte al blocco comunista, è anche un fatto che ebbe così modo di concentrarsi pressoché esclusivamente sul potenziamento del suo sistema produttivo. D’altra parte, all’avvento dell’ "economia sociale di mercato" contribuì anche il fatto che i suoi sindacati vennero rimodellati, su consiglio dei laburisti inglesi, in funzione dello sviluppo di rapporti aziendali di cogestione. Quanto al "miracolo economico" che assicurò da allora alla Germania stabilità politica, crescente benessere e prestigio internazionale, fu la sua appartenenza dal 1957 alla Cee a crearne le premesse. E anche in periodi successivi fu la possibilità per l’economia tedesca di contare su un Mercato comune sempre più ampio a consentirle di irrobustire il nerbo del suo apparato industriale. È vero che anche altri Paesi si avvalsero in varia misura dei benefici di una politica economica comunitaria per crescere di statura e consistenza. Ma tutto ciò sta appunto a dimostrare che solo una condivisione di orientamenti e la ricerca di soluzioni eque ed efficaci, all’insegna di una convergenza di interessi, può costituire il pilastro anche dell’attuale Unione economica e monetaria. D’altronde, a Berlino ci si è dimenticati che è stata proprio la Germania per prima a invocare, fra il 2003 e il 2004, un’applicazione più flessibile del Patto di stabilità. Ma allora era in gioco il suo tornaconto, dato che il disavanzo strutturale dei conti pubblici era incompatibile con le prescrizioni del trattato di Maastricht e l’economia tedesca continuava ad ansimare. In quel frangente il governo Schröder ritenne di poter agire a sua discrezione, anche perché affiancato da quello di Parigi, che per il terzo anno consecutivo aveva sfondato i limiti dell’indebitamento. Perciò entrambi i governi avrebbero dovuto essere censurati e sottoposti alle relative procedure sanzionatorie. Senonchè francesi e tedeschi fecero valere per autoassolversi i loro rapporti di forza politici ed economici, finendo non solo per relegare in un angolo la Commissione di Bruxelles e spaccare in due l’Ecofin, ma per indurre altri Paesi a sentirsi liberi di agire in futuro come meglio avessero creduto. Non è che sempre e comunque la Germania abbia badato solo ai propri interessi. Ma adesso che l’ostinazione rude quanto pervicace del suo governo accentua anche i divari nel tessuto connettivo economico e sociale di vari Paesi, come non ricordare che, quando si trattò negli anni Novanta di aiutare la riunificazione tedesca, non mancò la solidarietà politica e l’appoggio degli altri Paesi europei? E che l’allargamento dell’Europa comunitaria verso Est, sollecitata da Berlino, venne da loro assecondata sebbene si pensasse che avrebbe finito col rafforzare le prerogative della Germania nel cuore del Vecchio Continente?