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 2012  giugno 29 Venerdì calendario

I NUOVI DEPRESSI

Nella storia dei farmaci, poche medicine sono state accolte con tanto entusiasmo quanto una pillola bianca e verde che contiene 20 milligrammi di luoxetina idrocloride, la sostanza chimica nota con il nome di Prozac. Nel suo libro del 1994 Prozac nation, Elizabeth Wurtzel descrive un’esperienza quasi trascendentale.
Prima di cominciare il trattamento con gli antidepressivi, viveva in “un programma computerizzato di totale negatività… un’assenza di affetti, di sentimenti, di reazioni, di interesse”. Fluttuava da una “fantasia suicida” all’altra. Ma dopo aver cominciato a prendere il Prozac, in poche settimane la sua vita era cambiata. “Una mattina mi svegliai e avevo veramente voglia di vivere… Era come se il miasma della depressione si fosse dissipato, come quando a San Francisco la nebbia si alza con l’avanzare del giorno. Era merito del Prozac? Senza dubbio”.
Come lei, milioni di persone in quel periodo si aidarono agli antidepressivi. Nel 1988, un anno dopo l’approvazione della Food and drug administration (Fda), negli Stati Uniti erano già state rilasciate 2.469.000 ricette per il Prozac. Nel 2002 erano salite a più di 33 milioni. Nel 2008 gli antidepressivi erano al terzo posto tra i farmaci più prescritti negli Stati Uniti.
Se facciamo un salto in avanti e arriviamo al 2012, gli stessi antidepressivi che avevano suscitato tanto entusiasmo sono diventati le bestie nere della psicofarmacologia moderna: prodotti sopravvalutati e troppo prescritti, tipici di una cultura che cerca nelle pillole una soluzione rapida a problemi mentali complessi. Nel suo libro del 2009 The emperor’s new drugs, lo psicologo Irving Kirsch afferma che gli antidepressivi non funzionano meglio delle pillole di zucchero usate come placebo, e che l’eficacia clinica di quei farmaci è essenzialmente una leggenda. Se il testo simbolo degli anni novanta era stata la testimonianza quasi estatica di Peter Kramer in La pillola della felicità, il libro degli anni duemila è senza dubbio Let them eat Prozac: the unhealthy relationship between the pharmaceutical industry and depression (Imbottiamoli di Prozac: il rapporto malsano tra l’industria farmaceutica e la depressione) di David Healy.
In realtà, i princìpi stessi in base ai quali questi farmaci dovrebbero funzionare sono stati ormai messi in discussione. Le cellule nervose, i neuroni, parlano tra loro attraverso segnali chimici chiamati neurotrasmettitori, che assumono diverse forme: serotonina, dopamina, norepinefrina. Per decenni la teoria dominante è stata che gli antidepressivi funzionavano alzando i livelli di serotonina. Si pensava che nel cervello delle persone depresse il segnale della serotonina fosse in qualche modo “indebolito” a causa di uno squilibrio chimico nei neurotrasmettitori.
E che il Prozac e il Paxil alzassero quei livelli raforzando i segnali, come amplificando la comunicazione tra le cellule.
criticata. Sulla New York Review of Books, Marcia Angell, una ex direttrice del New England Journal of Medicine, ha scritto: “Da decenni i ricercatori cercano di dimostrare la tesi dello squilibrio chimico, ma non ci sono ancora riusciti”. Sulla rivista Psychology Today, Jonathan Rottenberg esprime lo stesso concetto: “Come teoria scientifica, quella che mette in relazione la depressione con un basso livello di serotonina sembra ormai sull’orlo del collasso. Ed è giusto che sia così. In fondo, correggersi è nella natura della scienza. Le idee devono arrendersi all’evidenza”.
Ma “l’ipotesi della serotonina” è veramente superata? Abbiamo percorso una strada per quasi quarant’anni senza capire minimamente come e perché cadiamo in depressione? Dobbiamo ricominciare da capo e trovare una nuova teoria? È vero che la scienza si corregge, ma qualche volta esagera e scarta completamente ipotesi che invece avrebbero solo bisogno di essere aggiornate. I risultati delle ultime ricerche hanno confermato che in realtà la serotonina è un fattore determinante per l’umore, anche se il suo meccanismo d’azione è molto più sottile di quanto si immagini. Il Prozac, il Paxil e lo Zoloft probabilmente non sono “farmaci miracolosi” come si credeva in passato. Ma ci hanno aiutato a capire cos’è la depressione e come si può curare.
Difetto d’amore L’idea moderna del collegamento tra la depressione e le sostanze chimiche nel cervello è nata quasi per caso a metà del secolo scorso. Nell’autunno del 1951 i medici del Sea view hospital di Staten Island che trattavano i pazienti tubercolotici con un nuovo farmaco chiamato iproniazide osservarono un improvviso cambiamento del loro umore e dei loro comportamenti. Le corsie – di solito cupe e silenziose, piene di pazienti moribondi e apatici – “la settimana scorsa erano illuminate dai volti allegri di uomini e donne”, scrisse un giornalista in visita all’ospedale. In sala da pranzo, i pazienti ridevano e scherzavano, come se il velo cupo della soferenza fosse stato sollevato.
Avevano ripreso energia e ritrovato l’appetito.
Molti, che erano malati da mesi, chiedevano cinque uova per colazione e le mangiavano con gusto. Quando la rivista Life mandò un fotografo all’ospedale per un’inchiesta, i pazienti non erano più intorpiditi nei loro letti, ma giocavano a carte o ballavano nei corridoi.
Se i pazienti del Sea view si erano risvegliati, quelli del Duke’s hospital, qualche centinaio di chilometri più a sud, stavano vivendo l’esperienza opposta. Nel 1954, a una donna di 28 anni era stato prescritto il Raudixin per tenere sotto controllo la pressione.
Qualche mese dopo tornò in ospedale lamentando crisi di pianto, debolezza e apatia. Disse ai medici che si sentiva inutile, disperata e piena di sensi di colpa. Qualche mese dopo, quando tornò per un controllo, quel senso di vuoto si era trasformato in ostilità. Un’altra donna, di 42 anni, alla quale era stato prescritto il Raudixin, disse al suo medico che “Dio l’avrebbe fatta impazzire” prima che potesse pentirsi. Quella “sensazione di tristezza” persisteva fino a quando la paziente non smetteva di prendere il farmaco. In un altro ospedale una paziente trattata con Raudixin tentò il suicidio.
Diverse persone furono ricoverate nei reparti psichiatrici e sottoposte all’elettroshock per alleviare i sintomi.
Gli psichiatri e i farmacologi si interessarono a questi strani casi. E si chiesero come fosse possibile che due farmaci apparentemente non collegati tra loro producessero efetti così profondi e opposti sull’umore.
Fu più o meno in quel periodo che gli scienziati scoprirono che il cervello era immerso in un brodo di sostanze chimiche.
All’inizio del secolo avevano cominciato a chiedersi come comunicavano tra loro le cellule nervose. Alla fine degli anni sessanta era stato ormai dimostrato che a portare i segnali da un neurone all’altro erano diverse sostanze chimiche, tra cui la serotonina.
Era possibile, si chiesero gli scienziati, che l’iproniazide e il Raudixin alterassero i livelli di qualche neurotrasmettitore, modificando i segnali all’interno del cervello e di conseguenza l’umore? Era proprio così.
Il Raudixin, quello che produceva la “sensazione di tristezza”, abbassava drasticamente la concentrazione di serotonina e di altri neurotrasmettitori a cui è collegata strettamente. I farmaci che rendevano euforici come l’iproniazide, invece, aumentavano la concentrazione di serotonina.
Queste prime scoperte indussero gli psichiatri a formulare un’ipotesi del tutto nuova sulla causa e sul trattamento della depressione. Quella condizione, dissero, era la conseguenza di uno “squilibrio chimico” dei neurotrasmettitori: in un cervello normale la serotonina viaggiava avanti e indietro tra i neuroni, che mantenevano l’umore in equilibrio, mentre in un cervello depresso questo non succedeva. Lo scrittore Andrew Solomon una volta deinì la depressione un “difetto d’amore”. I medici che usavano il Raudixin al Duke avevano osservato in tempo reale l’emergere di quel difetto: veniva gradualmente a mancare l’amore per se stessi (sensi di colpa, vergogna, fantasie suicide), l’amore per gli altri (attribuzione di colpe, aggressività, accuse) e perino il desiderio di amore (letargia, ripiegamento su se stessi, apatia). Ma secondo gli scienziati erano solo i sintomi esteriori del cattivo funzionamento dei neurotrasmettitori.
Il “difetto d’amore” era un difetto delle sostanze chimiche.
A confermare deinitivamente questa teoria fu la scoperta di nuovi farmaci specifici per aumentare le concentrazioni di serotonina.
Il primo, lo Zimelidine, fu creato da un ricercatore svedese, Arvid Carlsson.
Seguendo il suo esempio, i farmacologi concentrarono i loro sforzi e impiegarono i loro fondi nella ricerca di potenziatori della serotonina, e così nacquero in rapida successione tutti i nuovi giganti del mondo degli antidepressivi. Il Prozac fu creato nel 1974. Il Paxil fece la sua comparsa nel 1975, lo Zoloft nel 1977 (i nomi commerciali furono introdotti qualche anno dopo).
Nel 2003, a Boston, cominciai a curare una donna di 53 anni affetta da una forma avanzata di tumore al pancreas. Dorothy non aveva mai avuto problemi di salute fino a quando non aveva notato un preoccupante segnale noto a tutti gli oncologi: l’ittero indolore, l’improvviso ingiallimento della pelle non associato a sintomi. Le cause dell’ittero indolore possono essere diverse, ma quella che gli oncologi conoscono meglio, e che temono di più, è il cancro al pancreas.
Nel caso di Dorothy la massa tumorale era piuttosto grande, a forma di pugno, con prolungamenti che occludevano i vasi sanguigni e un’unica metastasi al fegato che era impossibile rimuovere chirurgicamente.
L’unica soluzione era la chemioterapia.
Quell’inaspettata diagnosi colpì Dorothy come una dose di anestetico endovena, stordendola completamente. Quando cominciò la chemioterapia in ospedale, passava le mattinate a letto dormendo o guardando dalla finestra il iume che scorreva lì sotto. Ma la cosa più inquietante fu che la vidi lentamente lasciarsi andare. I suoi capelli, di solito ben tenuti, erano sempre più arruffati. Continuava a indossare i vestiti con i quali era arrivata in ospedale. E c’erano dei segni ancora più preoccupanti: si stuzzicava continuamente le piccole escoriazioni della pelle, lasciava i pasti intatti sul comodino, evitava sempre più spesso di guardare le persone negli occhi. Una mattina arrivai durante quella che sembrava una crisi emotiva quotidiana: qualcuno aveva spostato un cuscino sul suo letto, non era riuscita a dormire e per qualche motivo era tutta colpa di suo figlio.
Quell’angoscia, ovviamente, era provocata dalla gravità della diagnosi. Non essere angosciati sarebbe stato strano in quelle circostanze, ma anche lei si era accorta che c’era qualcosa di preoccupante nella sua reazione, e chiese aiuto. Contattai uno psichiatra e, con il suo consenso, le somministrammo il Prozac.
Per le prime settimane non successe nulla. Quando però la rividi in clinica dopo un mese e mezzo, il cambiamento era notevole.
I suoi capelli erano puliti e ben pettinati.
Le escoriazioni erano scomparse e la pelle aveva un bell’aspetto. Tuttavia mi disse che si sentiva ancora eccessivamente triste. Passava la maggior parte delle giornate a letto. Il farmaco aveva indubbiamente agito su molti sintomi della depressione, ma non aveva modificato la sua “sensazione” soggettiva. Aveva curato i difetti della pelle, ma non il difetto d’amore.
Un percorso specifico Chiunque abbia un po’ di buon senso, leggendo la descrizione di questo caso probabilmente penserà che la causa della depressione di Dorothy non fosse lo squilibrio della serotonina, ma la diagnosi di una malattia mortale. Perché avremmo dovuto cercare una causa chimica quando il motivo della sua angoscia era così evidente? Ma fermiamoci un momento e pensiamo alla isiologia di un infarto. Un infarto può essere provocato da una serie di cause: un’alta pressione cronica, un livello troppo alto di colesterolo “cattivo” o il fumo. Ma la cura con l’aspirina risulta efficace in tutti i casi. Perché? Perché, qualunque sia la causa scatenante, l’attacco segue sempre lo stesso percorso e produce sempre lo stesso effetto: un coagulo nell’arteria coronaria che blocca il lusso sanguigno impedendogli di arrivare al cuore. L’aspirina inibisce la formazione e la crescita del grumo nell’arteria coronaria. E funziona indipendentemente dall’evento che ha prodotto il coagulo.
“All’aspirina”, diceva sempre un mio professore, “non interessa la nostra anamnesi”.
È possibile che una forte depressione sia come un attacco di cuore? Che segua, cioè, un percorso specifico e sia regolata principalmente dalla serotonina? Esistono senza dubbio altri casi di percorsi simili nella biologia del sistema nervoso, di stati mentali complessi scatenati da semplici sostanze chimiche. Per esempio, si è scoperto che la paura comporta sempre la stessa cascata ormonale, in cui l’adrenalina svolge il ruolo principale, anche se le cause scatenanti sono molto diverse tra loro (un orso, un ragno o l’arrivo dei suoceri).
Questa direzione della ricerca però non ci permette di capire se l’assenza di serotonina causa la depressione. Per scoprirlo dobbiamo sapere se nel cervello delle persone depresse i livelli di serotonina o di metaboliti della serotonina (prodotti della sua disgregazione) sono effettivamente più bassi. Nel 1975 un gruppo di patologi eseguì le autopsie di alcuni pazienti depressi per misurarli. Le prime scoperte sembrarono confermare la teoria: i pazienti depressi tendevano ad avere livelli di serotonina più bassi rispetto ai soggetti di controllo. Ma nel 1987 alcuni ricercatori scandinavi ripeterono l’esperimento con nuovi strumenti di misurazione e riscontrarono che nei pazienti depressi i livelli di serotonina erano più alti. Nuovi esperimenti non fecero che ribadire questa contraddizione. Secondo alcuni test i pazienti depressi avevano livelli più bassi di serotonina, secondo altri più alti, per altri ancora non c’era nessuna differenza.
Cosa sarebbe successo facendo l’esperimento contrario? Nel 1994 a un gruppo di volontari della McGill university di Montréal fu somministrata una miscela chimica che abbassava la serotonina e i medici osservarono i loro cambiamenti di umore mano a mano che i livelli scendevano. Ma anche quando la serotonina non c’era quasi più, la maggior parte dei soggetti non mostrò significative alterazioni dell’umore.
A prima vista questi studi farebbero pensare che non ci sia nessun rapporto tra serotonina e depressione. Ma dall’esperimento della McGill era emerso un fatto importante: l’abbassamento del livello di serotonina non produceva alcun effetto su volontari sani che non avevano mai sofferto di depressione, mentre produceva effetti sorprendentemente intensi su persone che avevano una storia familiare di depressione.
In questi soggetti, quando la serotonina scendeva, anche l’umore peggiorava notevolmente.
Una precedente versione di questo esperimento, condotta a Yale nel 1990, aveva prodotto risultati ancora più inquietanti.
Quando i pazienti depressi che stavano già rispondendo al trattamento con potenziatori di serotonina come il Prozac assumevano la miscela che glieli abbassava diventavano spesso profondamente depressi.
Se il calo della serotonina faceva tanta differenza, era ragionevole pensare che il loro umore fosse controllato da quel neurotrasmettitore.
Altri esperimenti avrebbero poi dimostrato che anche se non tutti i pazienti depressi avevano livelli più bassi di serotonina, quelli con tendenze suicide l’avevano sempre. Pensare al suicidio è la forma più estrema di depressione? O è uno specifico sottotipo di disturbo dell’umore distinto dagli altri? E se è così, è possibile che esistano vari sottotipi di depressione, alcuni dei quali rispondono al trattamento con i potenziatori di serotonina e altri no? Forse sappiamo solo che gli antidepressivi che potenziano la serotonina funzionano, ma non abbiamo ancora capito come.
Alla fine degli anni ottanta furono condotti alcuni studi per verificare gli efetti del Prozac sui soggetti depressi.
Molti rilevarono che, rispetto a un placebo, il farmaco effettivamente riduceva i sintomi della depressione. Di solito la depressione viene diagnosticata usando una scala standardizzata di sintomi. Nel complesso, alcuni pazienti mostrarono miglioramenti significativi dal punto di vista clinico, anche se gli effetti erano spesso minimi e variavano da test a test. Nella vita reale quei cambiamenti potevano essere più profondi: una diminuzione dell’ansia o del senso di colpa e la fine del desiderio di suicidarsi.
Per altri pazienti però i cambiamenti erano marginali. Forse il dato più importante che emerse da quei test era il più soggettivo: il 74 per cento dei pazienti dichiarava di sentirsi “meglio” o “molto meglio” da quando assumeva gli antidepressivi.
Un quadro coerente Nel 1997 lo psicologo Irving Kirsch, che oggi insegna alla facoltà di medicina di Harvard, decise di verificare l’effetto placebo sulla depressione. Di solito il placebo funziona perché la psiche modifica la propria percezione del benessere e della malattia.
Kirsch si chiedeva quanto potesse funzionare nel caso della depressione, che in sé implica un’alterazione della psiche.
Per misurare questo effetto, Kirsch raccolse 38 test nei quali ai pazienti era stato somministrato un antidepressivo, un placebo o nessun farmaco e analizzò i dati per vedere quanto i placebo contribuissero al miglioramento dell’umore. L’analisi produsse due risultati sorprendenti. Prima di tutto Kirsch scoprì che il 75 per cento dell’effetto di un antidepressivo si poteva ottenere semplicemente con un placebo. Quando poi lui e i suoi collaboratori combinarono i risultati di studi sugli antidepressivi pubblicati con quelli non pubblicati (questi ultimi li aveva ottenuti dalla Fda grazie alla legge sulla libertà d’informazione), si accorsero che gli effetti degli antidepressivi diminuivano progressivamente, fino quasi a scomparire, mentre l’effetto placebo saliva all’82 per cento (il che significava che quattro quinti dei benefici si potevano ottenere inghiottendo una pillola di zucchero).
Alla fine Kirsch si convinse che le case farmaceutiche esageravano i benefici degli antidepressivi scegliendo di pubblicare gli studi a loro favorevoli e di ignorare quelli sfavorevoli.
Ma non sempre è corretto mettere sullo stesso piano test pubblicati e non pubblicati.
Un test può non essere stato pubblicato non solo per nascondere qualcosa ma perché ha qualche difetto di base: i pazienti non sono stati selezionati o assegnati ai gruppi correttamente, le dimensioni dei gruppi sono troppo ridotte, e così via. Oppure pazienti lievemente depressi sono stati messi insieme ad altri più gravi o a soggetti ossessivo-compulsivi o schizofrenici.
Nel 2010 alcuni ricercatori hanno ripreso l’analisi di Kirsch confrontando i sei studi sugli antidepressivi condotti in modo più rigoroso, e hanno confermato le sue conclusioni ma solo fino a un certo punto. Nei pazienti affetti da una forma di depressione leggera o di media gravità i benefici degli antidepressivi erano quasi insignificanti.
Ma in quelli affetti da forme più gravi, il beneficio dei farmaci rispetto ai placebo era notevole. Questi pazienti dicevano, come Andrew Solomon, che non sentivano più la vita “sfuggirgli dalle mani”. Le crisi depressive più profonde si attenuavano gradualmente.
Come Dorothy, probabilmente i pazienti erano ancora angosciati, ma in modo meno autodistruttivo e paralizzante.
Come scrive Solomon: “L’opposto della depressione non è la felicità, ma la vitalità, e adesso, mentre scrivo queste parole, mi sento vitale”.
Questi studi ambigui e apparentemente contraddittori formano un quadro sorprendentemente coerente. In primo luogo, i pazienti affetti da una grave forma di depressione tendono a rispondere di più agli antidepressivi, mentre quelli affetti da una forma leggera rispondono di meno. In secondo luogo, nella maggior parte delle persone che rispondono ai farmaci molto probabilmente la serotonina svolge un ruolo importante, perché nei pazienti depressi un calo dei suoi livelli spesso provoca una ricaduta.
E, inine, confermano che la teoria del cervello immerso in un brodo di sostanze chimiche, che cade in depressione semplicemente per mancanza di serotonina, era troppo semplicistica.
Neuroni nuovi Come spesso accade nella scienza, a produrre una nuova teoria è stata una linea di ricerca completamente diversa. Alla fine degli anni ottanta, un neuroscienziato di nome Fred Gage cominciò a interessarsi a una questione che, a prima vista, sembrava marginale rispetto al problema della depressione: il cervello umano adulto produce nuove cellule nervose? All’epoca i neurobiologi erano convinti che nel cervello adulto non ci fosse sviluppo, che non nascessero più nuove cellule nervose: una volta che si erano formati durante l’infanzia, i circuiti neurali rimanevano fissi e immutabili. Se nuovi neuroni avessero continuamente sostituito i vecchi, i ricordi non sarebbero svaniti? Ma Gage e altri scienziati rivisitarono vecchi esperimenti e scoprirono che in realtà nei topi, nei ratti e negli esseri umani adulti i nuovi neuroni si formano, ma solo in due zone specifiche del cervello: nel bulbo olfattivo, dove vengono registrati gli odori, e nell’ippocampo, l’organo che controlla la memoria ed è funzionalmente collegato alle zone del cervello che regolano le emozioni.
Poteva esserci un legame tra emozioni e nascita dei neuroni nell’ippocampo? Per scoprirlo, Gage e i suoi collaboratori cominciarono a studiare i topi in condizioni di stress. Quando vengono tenuti cronicamente sotto stress, perché il loro ambiente viene improvvisamente modificato o i loro giacigli rimossi, i topi mostrano sintomi di ansia o di apatia e diventano meno avventurosi, tutti tratti che somigliano a quelli della depressione umana. E l’équipe di Gage scoprì che in quei topi la produzione di cellule nervose dell’ippocampo diminuiva.
Ma sembrava che succedesse anche il contrario. Quando i topi vengono inseriti in un ambiente “più stimolante” – che di solito contiene labirinti, materiale per costruire nidi e giocare – diventano più attivi e avventurosi.
Esplorano di più, imparano prima, cercano il piacere. Gli stimoli, in pratica, agiscono da antidepressivi. Quando Gage esaminò il cervello di quei roditori più stimolati, si accorse che nell’ippocampo nascevano più neuroni.
Alla Columbia university, un altro scienziato, René Hen, rimase afascinato dagli studi di Gage e insieme ai suoi collaboratori cominciò a indagare sul rapporto tra Prozac e crescita neuronale. Nei topi la formazione dei neuroni richiede due o tre settimane, più o meno lo stesso tempo che serve perché gli antidepressivi comincino a fare effetto.
Era possibile che gli efetti psichiatrici del Prozac e del Paxil fossero collegati alla Vu/EMblEMA 56 Internazionale 955 | 29 giugno 2012 Scienza lenta crescita dei neuroni e non solo alla serotonina? Hen cominciò a somministrare Prozac alle sue cavie. Dopo qualche giorno il loro comportamento cambiò: i segnali d’ansia diminuirono e gli animali diventarono più avventurosi. Cercavano cibo in posti diversi e adottavano immediatamente i nuovi comportamenti appresi. I neuroni spuntavano nell’ippocampo nello stesso posto in cui Gage li aveva visti nelle cavie inserite nell’ambiente più stimolante. Ma quando Hen bloccò la nascita dei neuroni nell’ippocampo, la tendenza a essere più avventurose delle cavie che avevano assunto il Prozac svanì. In altre parole, gli efetti positivi del farmaco dipendevano dalla nascita delle cellule nervose nell’ippocampo.
Nel 2011, Hen e i suoi colleghi hanno ripetuto questo esperimento su un gruppo di primati depressi. Nelle scimmie lo stress cronico produce una sindrome che presenta sintomi molto simili a quelli della depressione negli esseri umani. Ancor più dei topi, le scimmie stressate perdono interesse per qualsiasi piacere e diventano apatiche. Quando ha misurato la formazione dei neuroni nell’ippocampo di questi primati, Hen ha riscontrato che era molto ridotta. Quando invece ha somministrato alle scimmie un antidepressivo, ha verificato che i sintomi della depressione diminuivano e che i neuroni riprendevano a formarsi. Quindi se si bloccava la crescita delle cellule nervose il Prozac non funzionava più.
I risultati degli esperimenti di Hen hanno implicazioni importanti per la psichiatria e la psicologia. Gli antidepressivi come il Prozac e lo Zoloft, dice Hen, possono far salire provvisoriamente i livelli di serotonina nel cervello, ma il loro efetto è visibile solo quando nascono nuovi neuroni. È possibile che la depressione sia aggravata dalla morte dei neuroni in alcune zone del cervello? Nell’Alzheimer le regioni cerebrali legate alla cognizione degenerano, producendo la demenza che caratterizza questa malattia. Nel Parkinson la degenerazione riguarda le cellule nervose addette a coordinare i movimenti, che dà luogo al caratteristico tremolio. Anche la depressione potrebbe quindi essere una malattia degenerativa, un Alzheimer delle emozioni, una demenza dell’umore? E come fa, esattamente, la morte dei neuroni nel piccolo ippocampo (una parte del cervello solitamente associata all’immagazzinamento dei ricordi) a causare questi disturbi dell’umore? Si è sempre pensato che le cellule nervose del cervello formino minuscoli “circuiti” biologici che regolano i comportamenti. Un gruppo di cellule nervose, per esempio, riceve l’ordine di muovere una mano e trasmette il segnale ai muscoli che producono quel movimento. È facile immaginare che il cattivo funzionamento di quel circuito possa produrre un disturbo nei movimenti. Ma come fa un circuito nervoso a regolare l’umore? Forse, per esempio, immagazzina le regole su come reagire allo stress: cosa dobbiamo dire, fare o pensare quando ci sentiamo male, abbiamo la nausea, rischiamo di morire o, come nel caso di Dorothy, nostro iglio ha spostato un cuscino. Forse una degenerazione scatena un segnale di panico nel cervello che stimola fantasie perverse, e quindi la morte delle cellule provoca pensieri suicidi? E come fa la nascita di nuove cellule ad alleviare questa sensazione? Si formano nuovi circuiti che restituiscono vitalità inducendo comportamenti adattivi piuttosto che distruttivi? È per questo che il Prozac o lo Zoloft impiegano due o tre settimane per cominciare a funzionare? Per non essere più depressi, dobbiamo aspettare la lenta rinascita di nuovi neuroni? Soferenza fuori contesto Se esiste, la risposta a queste domande potrebbe emergere dal lavoro di Helen Mayberg, una neuroscienziata della Emory university.
Mayberg sta mappando le zone anatomiche del cervello che sono inattive o iperattive nelle persone depresse. Studiando queste aree è arrivata al cingolato subcalloso, un minuscolo fascio di cellule nervose che si trova vicino all’ippocampo e funge da collegamento tra le parti del cervello che controllano il pensiero cosciente e quelle che controllano le emozioni. Possiamo immaginarlo come una sorta di incrocio sulla strada che unisce il nostro io cognitivo a quello emotivo.
Usando una sonda per stimolare quella zona del cervello con piccole scosse elettriche, nei pazienti che resistono alla terapia con gli antidepressivi Mayberg ha ottenuto risultati eccezionali: durante il test, circa il 75 per cento di loro subiva un notevole cambiamento di umore. Qualche secondo dopo l’inizio della stimolazione molti soggetti, alcuni dei quali erano depressi al punto da sembrare catatonici, dicevano di sentirsi “improvvisamente calmi” o che “il senso di vuoto era scomparso”. Lo stimolatore può essere impiantato nei pazienti e funziona come un pacemaker per la depressione: continua ad alleviare i sintomi per anni.
Quando la batteria si esaurisce, i pazienti ricadono lentamente nella depressione.
A prima vista gli studi di Mayberg sembrerebbero escludere l’ipotesi della serotonina.
Dopotutto è stata una stimolazione elettrica, non chimica, ad alterare l’umore.
Ma anche la risposta alla stimolazione elettrica sembra legata alla serotonina. Il cingolato subcalloso è particolarmente ricco di cellule nervose sensibili alla serotonina.
Alcuni ricercatori hanno scoperto che bloccando il segnale della serotonina nel cervello dei ratti depressi, il pacemaker non funzionava più.
Da questi studi emerge una teoria della depressione completamente nuova. Forse alcune sue forme si instaurano quando uno stimolo – di tipo genetico, ambientale o legato allo stress – provoca la morte di una parte delle cellule nervose dell’ippocampo.
Forse nel cervello delle persone non depresse, i circuiti neuronali dell’ippocampo inviano al cingolato subcalloso segnali che servono a regolare l’umore. Il cingolato li integra e li invia alle parti più coscienti del cervello, consentendoci di percepire il nostro umore e di agire di conseguenza. Nel cervello depresso, la morte dei neuroni nell’ippocampo disturba questi segnali – ne blocca alcuni e ne fa partire altri – e alla fine quello che registra la coscienza è una sensazione di dolore e di ansia. “La depressione è una forma di sofferenza emotiva fuori contesto”, dice Mayberg. Nel cervello delle persone non depresse, sostiene, “l’ippocampo contribuisce a inserire una situazione con una componente emotiva in un contesto”, per esempio, dice al cervello cosciente che la perdita dell’amore va vissuta come un dolore e quella del lavoro come ansia. Ma quando l’ippocampo funziona male, forse la soferenza emotiva viene ingigantita e amplificata fuori contesto – come la totale negatività di cui parla Elizabeth Wurtzel. A quel punto, il “difetto d’amore” diventa indipendente e fine se stesso.
Diciamo che “diventiamo tristi”, ma quasi mai che “diventiamo allegri”. Perino la nostra lingua parte dal presupposto che la felicità è uno stato, mentre la soferenza è un processo. E anche in senso scientifico, l’ipotesi chimica sulla depressione non è più statica ma dinamica, siamo passati dallo “stato” al “processo”. Secondo i nuovi studi, un antidepressivo come il Paxil o il Prozac probabilmente non raforza semplicemente i segnali. Non si limita, come si pensava prima, ad aumentare i livelli di serotonina o a mandare più corrente nel circuito cerebrale che mantiene stabile l’umore.
Sembra piuttosto che modifichi quel circuito. Neurotrasmettitori chimici come la serotonina rimangono fondamentali per questa nuova teoria della depressione, ma funzionano in modo diverso, come fattori dinamici che fanno crescere i neuroni e forse formano nuovi circuiti.
Verso altre scoperte Innegabilmente, questa teoria presenta delle lacune importanti, e non può certo pretendere di essere universale. La depressione è una malattia complessa che assume forme diverse, e ha diverse cause e manifestazioni.
Come dimostrano i test clinici, solo una parte dei pazienti gravemente depressi risponde agli antidepressivi che potenziano la serotonina. Questi pazienti rispondono al Prozac perché la loro depressione comporta la morte delle cellule dell’ippocampo? E il farmaco non funziona nei casi meno gravi perché la causa della malattia è un’altra? Le diverse risposte ai farmaci potrebbero anche essere dovute a variazioni dei percorsi biologici. In alcune persone potrebbero essere coinvolti neurotrasmettitori diversi dalla serotonina. In altre, le alterazioni del cervello potrebbero essere provocate da fattori biologici che non sono neurotrasmettitori.
E in altre ancora i fattori chimici o biologici potrebbero non essere identificabili.
La depressione associata al Parkinson, per esempio, sembra avere poco a che fare con la serotonina. La depressione post parto è una sindrome così specifica che è dificile immaginare che i neurotrasmettitori o la nascita di neuroni nell’ippocampo vi svolgano un ruolo di primaria importanza.
La nuova teoria non spiega neanche perché la psicoterapia funzioni con alcuni pazienti e non con altri, e perché parlare con un terapeuta e prendere gli antidepressivi insieme sembra sempre funzionare meglio che fare solo una delle due cose. È molto improbabile che possiamo convincere il nostro cervello a produrre cellule parlando. Ma forse parlare modifica il modo in cui la morte delle cellule viene registrata dalle parti coscienti del nostro cervello.
Oppure potrebbe favorire il rilascio di altre sostanze chimiche e aprire percorsi di crescita neuronale paralleli.
Ma le implicazioni più importanti di questa ipotesi riguardano la nostra visione del rapporto tra nascita di neuroni, sbalzi di umore e alterazione dei comportamenti.
Forse gli antidepressivi modificano soprattutto i circuiti comportamentali del cervello – in particolare quelli che si trovano in profondità nell’ippocampo, dove vengono immagazzinati e organizzati i ricordi e i comportamenti appresi – e di conseguenza inluiscono sull’umore. Se il Prozac ha aiutato Dorothy a dormire meglio e le ha impedito di continuare a massacrarsi la pelle, il suo stato d’animo alla fine è cambiato perché aveva modificato i suoi comportamenti? In poche parole, si è creata da sola l’efetto placebo? Fino a che punto umore e comportamento coincidono? Forse il cervello ci fa “comportare” da depressi e quindi ci “sentiamo” depressi. Ipotesi come queste vanno oltre la psichiatria ed entrano in un terreno meno prevedibile e più inquietante. Partono dai disturbi dell’umore, ma sollevano quasi subito interrogativi sull’organizzazione del cervello.
Lo storico della scienza John Gribbin ha scritto che le scoperte scientifiche fondamentali sono sempre precedute da invenzioni tecnologiche. Il telescopio, che collocò deinitivamente la terra e i pianeti in orbita intorno al sole, indicò una nuova direzione all’astronomia e alla isica. Il microscopio, che portò l’ottica nella direzione opposta, alla fine consentì la scoperta della cellula.
Per studiare lo sconosciuto universo dell’umore e delle emozioni abbiamo pochi strumenti. Possiamo solo mescolare sostanze chimiche e innescare circuiti elettrici sperando, indirettamente, di capire la struttura e il funzionamento del cervello attraverso gli efetti. Nel corso del tempo, queste nuove teorie sulla depressione molto probabilmente porteranno alla produzione di nuovi antidepressivi: sostanze chimiche che favoriscono direttamente la crescita neuronale nell’ippocampo o stimolano il cingolato subcalloso.
Questi farmaci renderanno obsoleti il Prozac e il Paxil, ma qualsiasi nuova cura avrà comunque un debito intellettuale nei confronti della nostra idea di come funziona la serotonina nel cervello. Gli antidepressivi attuali andrebbero quindi visti non come conquiste della medicina ma come invenzioni tecnologiche. Sono stati gli strumenti chimici che ci hanno permesso di cominciare a capire qualcosa del nostro cervello e della biologia di una delle malattie più misteriose che colpiscono gli esseri umani.