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 2012  giugno 29 Venerdì calendario

Lusi è un vero capro espiatorio [Intervista a Claudio Martelli]– «Lusi arrestato è un capro espiatorio dato in pasto all’antipolitica»

Lusi è un vero capro espiatorio [Intervista a Claudio Martelli]– «Lusi arrestato è un capro espiatorio dato in pasto all’antipolitica». Ma, certo, «non si possono fare paragoni con Craxi: allora si indagava sul finanziamento illecito dei partiti, oggi si indaga sull’appropriazione indebita di soldi, che sono dei partiti». Ex ministro della giustizia, passato alla storia come «il delfino di Craxi», Claudio Martelli ripercorre l’agonia della Prima repubblica, in parallelo alla crisi della Seconda. Per l’ex enfant prodige del Psi, il leitmotiv è identico: «La crisi della politica, la crisi finanziaria», ma lo scenario oggi è ben più pericoloso. «L’uscita dall’euro sarebbe una catastrofe immane», dice. E rivela «Bettino e Visentini stavano lavorando a una maxi patrimoniale una tantum per abbattere il debito pubblico. Bankitalia e i partiti la bloccarono per evitare fughe di capitali». Su Berlusconi, poi, chiosa «era democristiano», mentre il parallelo tra Renzi e Craxi non lo convince: «svicola dalle domande difficili con le battute». Domanda. Legga la situazione odierna del paese. Risposta. Forse è il momento più difficile della nostra storia repubblicana. Più del periodo 1992-94; in quegli anni, il crollo di un sistema politico, sotto l’urto delle inchieste giudiziarie, fece da catalizzatore su un solo profilo del paese. Che, però, era già in difficoltà finanziarie. Ricordo la crisi della lira nello Sme: non riuscivamo più a reggere quel livello di cambi. In un certo senso, allora, c’erano tutte le premesse della crisi di oggi, vent’anni dopo. D. La differenza? R. La moneta era una variabile su cui poter scaricare le mancate riforme, i mancati tagli alla spesa. Si poteva usare la leva delle svalutazioni competitive, oggi non più possibili, non solo dentro l’Euro, ma anche in caso di fuoriuscita dall’euro. Quest’ultima ipotesi, se realizzata, sarebbe una catastrofe inimmaginabile: ci troveremmo a dover pagare gli interessi sul debito accumulati in Euro con una moneta svalutata, la Lira. D. Il grande accusato è il debito pubblico. Un fardello accumulato negli anni del Caf e del governo da bere. R. Guardi, sono andato a rileggermi i dati. Effettivamente, ci fu una crescita del debito, ma il vero grande balzo in avanti avvenne alla fine degli anni ’70, negli anni di piombo, con l’inflazione a due cifre, al 16-17%. Allora, la spesa sociale andò totalmente fuori controllo per evitare di dare al terrorismo l’alimento per una tempesta sociale. Ricordo, poi, che alla fine degli anni ’80, tra il 1989 e il 1992, il governo in cui ero vicepresidente e ministro della giustizia, raggiunse con Guido Carli al Tesoro la parità di bilancio al netto degli interessi. Il cosiddetto avanzo primario. Poi ci fu un ulteriore balzo del debito, con i governi Goria e De Mita. D. Anche ieri, l’Italia è andata al vertice di Bruxelles sventolando la bandiera dell’avanzo primario. R. Le dico una cosa mai rivelata. Ai tempi del governo Craxi ricordo di aver assistito a un colloquio tra Bettino e l’allora ministro delle finanze, Bruno Visentini, nel corso del quale entrambi accarezzavano l’idea di una imposta patrimoniale straordinaria, una sorta di una tantum massiccia, per abbattere il debito pubblico. Poi, dopo i sondaggi che fecero con le autorità, Bankitalia in primis, e gli altri del pentapartito, l’idea venne purtroppo abbandonata. Nel solito timore di provocare una colossale fuga di capitali D. Dia una pagella a Monti. R. È partito benissimo e poi si è incagliato per le resistenze dei partiti. in primis del Pd sulla riforma del lavoro, che poi ha innescato le resistenze del Pdl su altri aspetti della politica economica e di governo. La difficoltà di Monti è enorme, perché è sorretto da una strana maggioranza, a cui bisogna chiedere di mettere le dita negli occhi dei propri elettori per sorreggere un governo di cui non fanno parte. È obiettivamente una situazione molto difficile. Il cui logico sviluppo politico dovrebbe essere un governo di unità nazionale. D. Un Monti bis? R. Perché no? D. Molti osservatori paragonano Matteo Renzi a Ghino di Tacco. R. Povero Renzi e povero Ghino. No, non vedo affinità. Renzi è un outsider. È agli inizi; di lui si possono apprezzare gli aspetti giovanili e gioviali. Ma ho l’impressione che, quando gli fanno domande difficili su economia e riforme istituzionali, annaspi un po’. Svicoli sulla battuta. D. C’è un gap di formazione tra vecchi e nuovi politici? R. Non è una questione di vecchio e nuovo, ma di selezione. Non ci sono gli «unti dal Signore» e i poveretti. Se il Parlamento è composto da nominati, vuol dire che costoro non si sono conquistati una tribuna politica col lavoro e l’intelligenza. Ma che hanno ricevuto un dono in cambio della devozione al capo. D. Il capo è Berlusconi. E Berlusconi, dicono, fosse vicino al Psi R. Il Berlusconi che io ho conosciuto bene, era solo un imprenditore. Come mi diceva Bettino, e come io stesso ho potuto constatare, era un imprenditore attento alla politica, ma di sensibilità democristiana. Si avvicinò ai socialisti solo perché il segretario della Dc era De Mita, che lo detestava. E De Mita lo detestava perché De Mita era il garante, o si sentiva il garante, della Rai. Del servizio pubblico, all’epoca guidato da un suo stretto sodale, Biagio Agnes. D. Il Psi invece voleva privatizzare la Rai? R. Nel 1978, al convegno «Informazione e Potere» al Parco dei Principi, feci una proposta. Proposi la parziale privatizzazione della Rai, con la Terza Rete trasformata in un canale federale, che doveva organizzare le emittenti locali private, coordinate dal broadcast pubblico. E il varo di una Quarta Rete privata fatta da un consorzio di imprenditori. La proposta fu respinta dalla Dc e dal Pci; la bocciarono all’unisono, bollandola come «un attentato al servizio pubblico». Il Pci, alla Camera di deputati, mi accusò di aver buttato a mare cento anni di elaborazione marxista. Come se Marx si fosse mai occupato di televisione_ D. Il caso Lusi. Partiti che danno via libera all’arresto, mentre si avanzano seri dubbi sull’esistenza delle ragioni che giustificano la misura detentiva. Danno un loro uomo in pasto all’antipolitica? R. Vediamo. Il pericolo di fuga è prevenibile con gli arresti domiciliari. La reiterazione del reato supporrebbe un controllo dei conti che Lusi non ha più. Il timore di inquinamento delle prove sembra tardi per preoccuparsene. In questo senso sì, mi è sembrato un capro espiatorio. L’offerta di un capro espiatorio. Intendiamoci, però, io ritengo che Lusi abbia responsabilità personali che vanno accertate. D. Le ricorda il caso Craxi e il clima dell’hotel Raphael? R. La differenza, rispetto al passato è evidente: allora l’accusa dominate era il finanziamento illecito ai partiti. Oggi siamo all’opposto; siamo alla accusa di appropriazione indebita di soldi dei partiti. Il caso Lusi e il caso Lega sono questo. D. Anche allora c’erano fenomeni di arricchimento personale. R. Si, ma il 90% delle indagini aveva come finalizzazione accertare il finanziamento illecito ai partiti. Tra allora e oggi, ci sono stati 20 anni di privatizzazione della politica. Si sono affermati i partiti personali: di Berlusconi, Bossi, Di Pietro, Casini, Rutelli. Perfino Rifondazione Comunista è stata privatizzata da Vendola. D. Il caso Lusi basterà a calmare gli appetiti dell’antipolitica. E del grillismo? R. No. Perché le risposte giudiziarie alla crisi politica non sono mai adeguate. L’unica risposta dovrebbe essere una grande riforma delle istituzioni e dei partiti. D. In che direzione? R. Sono scettico sui grandi modelli; mi andrebbe bene il sistema parlamentare all’inglese. Con un premier che ha più potere del presidente Usa perché è, contemporaneamente, espressione della maggioranza elettorale e di quella parlamentare. Non avrebbe i problemi che ha il presidente Usa, alle prese con un congresso o un senato, in cui spesso non ha la maggioranza. In Uk, il Parlamento può sfiduciare il premier e bloccarne le iniziative, ma questo non avviene. D. Le proposte sul tavolo sono altre. R. Certo, si può anche scegliere il modello semipresidenziale francese. Funziona. L’importante è che si scelga un modello coerente. In questo momento, c’è sul terreno la proposta semipresidenzialista del centrodestra. Mi sembra più o meno la stessa di una proposta di legge del Pd, già depositata in parlamento. Adesso, però, il Pd, però dice no. Dice che non si può fare la riforma con un emendamento. Ma che c’entra? Se il Pd è d’accordo con il modello, e lo è perché ha già fatto una proposta identica, allora si faccia la riforma. Le occasioni storiche vanno colte. D. Quindi, cosa motiva lo stallo? R. Ho l’impressione che prevalga il tatticismo; che in sostanza oggi il Porcellum al Pd non dispiaccia affatto. Perché si sente in vantaggio. E l’idea di avere un premio di maggioranza come quello odierno è una bella tentazione_