Roberto Di Caro, L’Espresso 5/7/2012, 5 luglio 2012
Una terra Libera– Terra buona come non ce n’è, al Pontevecchio, accanto scorre il Petrace dei miti di Ercole e Oreste, se sputi per terra cresce un albero, dicono da queste parti: "Tant’è che la prima melanzana che ci piantammo venne su di un chilo e mezzo
Una terra Libera– Terra buona come non ce n’è, al Pontevecchio, accanto scorre il Petrace dei miti di Ercole e Oreste, se sputi per terra cresce un albero, dicono da queste parti: "Tant’è che la prima melanzana che ci piantammo venne su di un chilo e mezzo. Ma ci vollero tre anni....". I ragazzi ascoltano, trenta in maglietta rossa E!State liberi!, tutti dall’istituto-liceo Archimede di San Giovanni in Persiceto alle porte di Bologna. Stanno qua per una settimana, la mattina a estirpare erbacce (coltivazione biologica, niente diserbanti), il pomeriggio a incontri, visite e convegni su mafia e antimafia, cultura locale, parrocchia, associazioni e boy scout: al campo estivo della Cooperativa Valle del Marro, cuore in Calabria di Libera Terra fondata da don Luigi Ciotti per l’uso sociale dei beni confiscati alla mafia, centro aziendale a Polistena dov’è pure la parrocchia di don Pino De Masi, suo ideatore e mentore. A raccontare ai ragazzi fatti e storia, in una pausa del lavoro sulle erbacce, è Antonio Napoli, 40 anni e una laurea su Derrida, uno dei nove soci fondatori della cooperativa ma tra gli ultimi a essere assunto, come operaio, responsabile dei campi che da giugno a settembre ospitano 450 volontari, in maggioranza studenti ma anche adulti. "Tre anni ci vollero, per il primo raccolto. Quando nel 2005 la nostra avventura ebbe inizio, in questo appezzamento non c’erano infatti che piante d’agrumi secche, soffocate da due metri di rovi e sterpaglie: costò una fortuna, e per mesi l’aiuto di una brigata internazionale di volontari, solo ripulire il terreno". Confiscato alla cosca Piromalli dopo un farraginoso iter giudiziario, dato in proprietà al Comune di Gioia Tauro e in comodato d’uso trentennale alla Valle del Marro Libera Terra, questo di Pontevecchio è uno dei 20 appezzamenti affidati alla cooperativa, sparpagliati per un totale di 120 ettari in sette comuni nella piana di Gioia Tauro e appartenuti ai Piromalli, ai Mammoliti, ai Longo-Versace: perché ogni paese ha la sua ’ndrina, in un’intricata e mutevole geografia del crimine organizzato costruita su famiglie, alleanze, matrimoni, propaggini nelle istituzioni, appalti, assalto ai fondi europei, evoluzione finanziaria ed espansione al Nord e in Europa. "Scomodo" è l’aggettivo gergale che, per definire questa loro esperienza, usano Ilaria, Filippo, Francesca, Sofia, Matteo e gli altri studenti. In slang significa fuori norma ma per questo apprezzato, intenso, degno d’essere vissuto: scomodo, ti dicono, "è girare con queste magliette tra chi ti sorride e ti avvicina e chi ti guarda storto, scomodo è estirpare le male piante dai terreni come dalla mentalità, scomode sono le storie delle persone, che più delle teorie ci affascinano. Scomodo è infine scoprire che non è vero, come pensavamo, che questa terra, la Calabria, è persa". Non che la battaglia sia vinta: "In un rosario di attentati e sabotaggi", indica Antonio, "quel cancello di ferro è stato divelto, le due ante saldate come a dire "per voi tutte le porte sono chiuse", trafugato un trattore, grippati con lo zucchero i motori di camion e macchine agricole, bruciate o tagliate 700 piante nell’oliveto Principe di Cordopatri. Ma noi ne abbiamo ripiantate 1.200: hanno già dato il frutto, fra due anni produrrano a pieno regime". Don Chisciotte contro i mulini a vento in un’estenuante contesa buona come esempio e testimonianza per le scolaresche ma poco di più? Vivaddio, è vero il contrario, e a dire le cose come stanno è un po’ questa la sorpresa. Se qui (e più ancora, il mese scorso, nelle altre cinque cooperative in Sicilia, Puglia, Campania più tre in via di costituzione), le mafie fanno guerra a colpi d’incendi e sabotaggi, è perché la macchina di Libera ha cominciato a incidere sui territori dove opera, a scalfire usi e poteri costituiti, a far danni e a guadagnare consenso. In un palazzo confiscato alle cosche ci sistemi una caserma dei Carabinieri o della Guardia di Finanza, come già a Gioia Tauro, e il gioco è fatto, hai piantato la bandierina dello Stato. Ma coi terreni è diverso. Se, requisiti, restano abbandonati, parte il leitmotiv "sotto le famiglie almeno si lavorava": l’antimafia dei tempi biblici, anni tra svolazzi di carte per assegnare un terreno, è un flop. Cambia tutto se quel podere riesci invece a farlo rinascere e produrre. O a ottenerlo in uso prima che deperisca, sequestrato benché non ancora definitivamente confiscato: come da poco s’è cominciato a fare. "Ha idea di che cosa significhi costruire in zona una filiera efficiente, di aziende vere che producono davvero e non solo per rastrellare illecitamente i fondi europei a beneficio di pochi? Imprese che vendono olio extravergine di oliva invece di quell’olio lampante, cioè buono solo per le lampade, com’era uso perché i contributi erano calcolati sulla quantità e non sulla qualità? Società che danno lavoro regolare e pagano i contributi, roba che qua se la sognavano? Significa che togli il terreno sotto i piedi ai mafiosi, dimostri che puoi fare a meno di loro, della loro pervasiva mediazione, dei loro favori, del loro controllo sociale: perché di socialità vive la mafia, della mafiosità dei comportamenti diffusi". Ce l’ha chiarissimo in testa il percorso intrapreso, don Pino Demasi, 60 anni, vicario generale della diocesi di Oppido-Palmi e parroco di Santa Marina patrona di Polistena, fatta santa perché vestita da uomo s’infiltrò in un monastero maschile in secoli in cui quelli femminili non esistevano. Mafia e antimafia, dice don Pino, "in Calabria sono perfettamente trasversali, entrambe vanno dall’estrema destra all’estrema sinistra": ma a Polistena (10 mila anime, qualche media industria, un grande ospedale e storici negozi d’abbigliamento residuo del tempo in cui era crocevia di commerci fra Ionio e Tirreno), con il sindaco rosso Pcdi Michele Tripodi, nipote di Mommo Tripodi sindaco Pci per trent’anni, filano d’amore e d’accordo: tra le vie Passione, Calvario, Matrice e Immacolata da un lato, Marx, Lenin, Gramsci, Togliatti, Gagarin e Ho Chi Min dall’altra. Nel quartiere più di ’ndrangheta, solo vie dedicate a vittime di mafia. Ti porta, don Pino, sulla statale 111, dove già si prega in una tensostruttura mentre s’alzano le mura della prima chiesa costruita in Italia su un terreno confiscato alla mafia; poi in piazza Giuseppe Valerioti, segretario Pci ucciso trent’anni fa, in mezzo una delle fontane più brutte d’Italia: "Nessuno la chiamava così, solo piazza del 2001, nome anni Settanta del bar della famiglia Versace, messaggio "il futuro siamo noi", che la mafia vive di simboli". Ora l’intero palazzo, cinque piani, è confiscato e dato alla parrocchia, che lo sta ristrutturando coi soldi della Fondazione Con il Sud di Carlo Borgomeo: ci staranno il centro di aggregazione giovanile, l’ambulatorio di Emergency, la bottega dei prodotti di Libera Terra, un ristorantino bio, l’ostello per i volontari oggi ospitati alla bell’e meglio in una scuola. Funziona così, la rete della legalità. Un pezzo dopo l’altro, come in un puzzle montato sopra un altro più vecchio finché il disegno di sotto, la ragnatela pervasiva delle cosche, non riesci più a leggerlo. In parallelo alla repressione, s’intende: se i Longo-Versace di Polistena sono in ritirata si deve anche all’operazione Scacco matto che nel marzo 2011 spedì in galera 35 dei suoi capi e gregari. Intoppi ce ne sono. Il credito: "Potessimo investire di più avremmo già assunto non 15 più gli stagionali ma 40 dipendenti. Allo Stato non chiediamo soldi, ma ci metta in condizione di ottenere normali mutui dalle banche. Che qui al Sud già sono usuraie per i fatti loro, ci sono sentenze": non è che le manda a dire, il prete, questo s’è capito. Due conti li fa Giacomo Zappia, l’agronomo, presidente della cooperativa, storia personale Azione cattolica e scout. Vai con lui a Cuccumello, comune di Taurianova, un fantastico aranceto confiscato mesi fa ai Mammoliti, ancora improduttivo perché per pulirlo servono 2.500 euro a ettaro, "e se investo qui come li pago gli stipendi a fine mese? Anche per gli uliveti, 90 ettari, causa inadempienze burocratiche altrui noi percepiamo contributi per meno di 10 mila euro, un decimo di quanto ci spetterebbe. Nel concreto, lo Stato latita ancora". Tornando verso Polistena, in mezzo ai boschi, nelle case malconce di un pentito che ha mollato tutto e se n’è andato, vivono accampati una ventina di maghrebini e subsahariani: qua dietro c’è la Rosarno dei caporali, dello sfruttamento totale dei senza-diritti, della rivolta del gennaio 2010 e della caccia all’uomo che ne è seguita. L’alternativa di Libera è produrre. E cose buone. Ma se vuoi che l’esempio diventi economia e metta in moto altra economia, poi devi vendere. Per canali normali, non solo affidati ai buoni sentimenti di consumatori etici. E magari acquistare da altri produttori, a prezzi vantaggiosi per loro e competitivi per te. "È ciò che stiamo sperimentando con tre agricoltori: noi paghiamo loro le arance 25 centesimi al chilo al posto dei 5 dell’industria, loro rispettano regole di trasparenza, qualità del prodotto e tutela del lavoro", risponde Domenico Fazzari, 39 anni, socio amministratore, anche lui oratorio e caposcout, che dall’adolescenza si ricorda le teste mozzate, i morti per droga e quelli ammazzati per strada. Finora i conti quadrano. Fatturano oltre mezzo milione, sono in attivo, investono in ripristino di 15-20 ettari l’anno e nella linea di imbarattolamento, pensano a un frantoio tutto loro. Vendono extravergine, melanzane sott’olio, pesto di peperoncino piccante e di olive, arance e clementine: a Unicoop Firenze, botteghe del commercio equosolidale, gruppi di acquisto, ristoranti e attraverso la rete di Libera, ma solo un decimo al Sud. "No, non entriamo nel Consorzio mediterraneo Libera Terra", dice Domenico, "strategie produttive e contatti coi clienti vogliamo tenerli per noi". Valorizzazione delle diversità, la chiama. n Il sogno di don Ciotti Un caleidoscopio di associazioni accomunate da due obiettivi: promuovere la legalità e combattere la mafia. È il mondo di Libera, la rete che oggi raggruppa e coordina 1.600 realtà associative e più di 10 mila iscritti in tutta Italia. L’avventura di Libera ha inizio all’indomani delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, quando don Luigi Ciotti inaugura, all’interno del Gruppo Abele di Torino, la rivista "Narcomafie", mensile di approfondimento sulla criminalità e i traffici illeciti. Due anni dopo, il 25 marzo del 1995, nasce "Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie". Quartier generale romano, ma un forte radicamento in ogni regione italiana. Soprattutto in Piemonte, dove si trovano 47 delle 244 sedi locali, le "antenne sul territorio", come le definisce lo stesso don Ciotti. La prima importante vittoria arriva un anno dopo, con la legge sul riutilizzo dei beni confiscati alla criminalità. Libera, da allora, si occupa della riconversione di oltre 7 mila immobili e terreni appartenuti ai boss, favorendo la nascita di cooperative sociali i cui prodotti tipici (dalla pasta alle conserve, dall’olio ai vini) vengono raccolti e distribuiti con il marchio Libera Terra attraverso la grande distribuzione, i canali del commercio equo-solidale e le 14 Botteghe dei sapori e dei saperi della legalità. Dalla produzione alla formazione sulle tematiche della legalità: sono 1 milione e 300 mila gli studenti coinvolti nell’ultimo anno e informati, attraverso i canali della Fondazione Libera Informazione, presieduta da Santo Della Volpe. E ancora. Un ufficio legale, per dare supporto a chi è finito nelle maglie del racket e dell’usura. Tra le manifestazioni spicca la Giornata della Memoria, che ogni 21 marzo celebra anche il ricordo delle vittime della mafia. F. L.