Tommaso Cerno e Marco Damilano, L’espresso 5/7/2012, 5 luglio 2012
RIECCOLI
Detta ultimatum a Monti sull’Europa. Blocca il Parlamento su riforme e Rai. Affossa Alfano e il vecchio Pdl. Così Berlusconi si prepara alla sfida elettorale. Un uomo solo al comando. Tra le macerie–
È tornato. A pranzo da Mario Monti alla vigilia del cruciale vertice europeo, a tutti gli effetti la svolta per l’Europa e per l’Italia. ("Ho avuto il piacere di incontrare il presidente Berlusconi con l’onorevole Alfano", riferisce lo stesso premier pochi minuti dopo nell’aula di Montecitorio). È tornato. A fare il bello e il cattivo tempo nel Pdl, il partito da lui fondato e di cui è da tempo profondamente disamorato, con il segretario Angelino Alfano che chiede incredulo ai suoi amici: "Ma allora io qui che ci sto a fare?" È tornato. Sulla Rai, sulla giustizia, sulla riforma elettorale, sulla Germania, sull’euro, su tutti i dossier della politica italiana, come se il tempo non fosse passato. Silvio Berlusconi, 76 anni a settembre, si prepara alla sesta campagna elettorale dal 1994 a oggi. I ragazzi che lo hanno acclamato al raduno giovanile in un albergone di Fiuggi organizzato dalla deputata Annagrazia Calabria diciotto anni fa non erano neppure nati. E lui era già lì, tra discese in campo, rivoluzioni liberali mai neppure avviate, il Paese da salvare dal buio del comunismo, guerra all’establishment, quello che a suo dire ha voluto la moneta unica europea troppo frettolosamente, società civile da mobilitare contro i professionisti della politica, i "parrucconi". La stessa ricetta con cui progetta il rientro. Un’impresa disperata, a guardare i sondaggi sfornati ogni settimana da Alessandra Ghisleri, con il Pdl che veleggia intorno a un misero 15-16 per cento, surclassato dal movimento di Beppe Grillo. Eppure Berlusconi ci crede. "Guardate", ha detto ai parlamentari riuiniti in assemblea, "nell’ultima settimana siamo cresciuti di due punti. Merito mio". E di chi, altrimenti?
Il primo ad accorgersi che il Cavaliere intende tornare a dettare il gioco è stato il premier Monti. Anche perché il gioco si fa sulla pelle del suo governo. L’attacco all’euro, condotto da Berlusconi con l’innegabile fiuto per gli umori dell’opinione pubblica, preoccupa l’inquilino di Palazzo Chigi a tal punto che nell’ultimo vertice di Villa Madama con Angela Merkel, François Hollande e Mariano Rajoy è circolata una cartellina con un repertorio di dichiarazioni berlusconiane sulla "plausibilità" dell’uscita dell’Italia dall’euro. Quasi che Monti volesse avvertire i partner e la Merkel: attenti, se insistete con il rigore torna lui. Un rischio evocato dal premier anche nel suo ultimo intervento alla Camera: "La trappola della recessione rappresenta la ricetta migliore per trascinarci nel provincialismo e nell’isolazionismo". Monti sa bene che in realtà Berlusconi non ha nessuna intenzione di aprire la crisi di governo e di andare a votare in autunno. Ha necessità di tempo per riorganizzare il campo del centrodestra, il suo ventaglio di simboli da affiancare al Pdl in via di decomposizione e magari per portare a casa una legge elettorale proporzionale che favorisca le liste più piccole e che riduca i danni della sconfitta annunciata. Il Cavaliere ne ha un disperato bisogno, soprattutto ora che la mossa di Pier Ferdinando Casini di lanciare l’alleanza con il Pdi di Pier Luig Bersani lo isola completamente: se si votasse con il Porcellum all’armata del Cav. resterebbero gli strapuntini. Ma al tempo stesso da ora in poi sarà Vietnam parlamentare su qualsiasi materia. Perché, come avverte Berlusconi sfoderando i sondaggi, "il 78 per cento del nostro elettorato è contro il governo Monti". E qualche segnale va dato. E così c’è un deputato del Pdl, il portaborse di Denis Verdini Luca D’Alessandro, che ha sfilato per votare la fiducia sulla riforma del mercato del lavoro con le dita a tappare le narici: a naso turato. Nella commissione parlamentare di vigilanza Rai i consiglieri del Pdl e della Lega non si sono fatti vedere: un ceffone alle nomine di Monti per viale Mazzini (Anna Maria Tarantola e Luigi Gubitosi). In Senato la riforma costituzionale si impantana in una babele di sistemi istituzionali tra di loro contraddittori, con il mediatore del Pdl Gaetano Quagliariello, che telefona ai colleghi esasperato: "Non mi ascolta più nessuno". Ed è in arrivo l’ennesimo scontro sulla giustizia, con il pacchetto anti-corruzione e la responsabilità civile dei magistrati.
Una guerriglia condotta dal Cavaliere in persona. "Il cazzone in capo", lo ha definito sul "Foglio" l’amico Giuliano Ferrara, "che ora si candida al ministero del Tesoro in team con il segretario di cui è presidente e che in quel governo sarebbe il presidente del presidente". Una foto impietosa: nel caos del partito che doveva restare al potere per decenni c’è un uomo solo al comando sulle macerie. Silvio, l’unico. Svogliato quando c’è da fare il padre nobile di Angelino Alfano ("Non ero io", ha confidato dopo l’ultima uscita a due con il segretario), galvanizzato, con la camicia blu alla Tony Manero quando sente che è il momento di battaglia. E gelidamente furioso con i colonnelli del Pdl che lo vorrebbero relegare in panchina al ruolo di allenatore. "Non chiamateli morti, non voglio fastidi", ha ordinato il Cavaliere a chi scalpita per azzerare la classe dirigente azzurra. Fino a qualche giorno fa faceva notare magnanimo che "in fondo c’è solo Alemanno che mi chiede di non ricandidarmi". Ma la rivelazione de "l’Espresso" sul piano Rosa Tricolore, con il florilegio di liste civiche al vaglio del Cavaliere e i tanti giudizi poco lusinghieri sui capi del Pdl ("Miracolati irriconoscenti che andrebbero esclusi da tv e giornali"), e l’intervento spaccatutto di Berlusconi a Fiuggi ventiquattr’ore dopo, hanno terrorizzato la nomenclatura pidiellina portando alla luce del sole le divisioni e l’insofferenza verso Silvio. Uno dopo l’altro si sono esposti Fabrizio Cicchitto, Franco Frattini, Giorgia Meloni e perfino la creatura prediletta del Cavaliere Mara Carfagna. Tutti con Alfano a ripetere come un mantra: Berlusconi faccia un passo indietro, subito le primarie per incoronare Angelino candidato premier.
Una sollevazione durata lo spazio di un weekend. Perché quando Berlusconi è tornato a parlare ai parlamentari il tema delle primarie è subito sparito. "Si faranno le secondarie", ha concluso il "Giornale" di famiglia in prima pagina. E la direzione del Pdl che doveva approvare il regolamento per i gazebo e stabilire la data della consultazione è durata appena dieci minuti: il tempo di votare il bilancio e di constatare che senza Silvio non si va da nessuna parte.
Le primarie del Pdl, infatti, in queste condizioni rischiano di trasformarsi in un clamoroso autogol per il segretario. "Ve lo immaginate Alfano candidato unico? A votare ci andrà solo lui...", prevede Giorgio Stracquadanio. Si sfilano i potenziali competitori: Daniela Santanchè, attivissima in Transatlantico, fa sapere che le primarie non le interessano più, eppure si era candidata, Vittorio Sgarbi non ci ha mai neppure pensato e ha già ottenuto l’imprimatur di Berlusconi per la sua lista Rivoluzione. Tutta l’attenzione si sposta fuori dal Pdl: candidature, marketing, posizionamento elettorale, ricerca di fondi. Liste animaliste, liste del fare (Bertolaso) e dell’apparire (Santanchè), liste para-leghiste e liste filo-meridionali. E nel Pdl si ironizza sulla svolta grillina ai limiti del dadaismo del Cavaliere: "Come si chiamerà il partito della Brambilla? Movimento 5 Stalle. E quello di Scajola? Movimento 5 Stanze. E quello della Santanchè? Movimento 5 Str...".
Le elezioni anticipate restano possibili, per Casini sono addirittura probabili, ma Berlusconi lavora in vista del 2013. Otto-nove mesi di tempo che gli serviranno per organizzare l’ultima corsa. Dopo la prima discesa in campo curata fin nei minimi dettagli ad Arcore nell’estate 1993 con Marcello Dell’Utri, mentre crollava la Prima Repubblica, e il Predellino del 2007 che ha portato alla nascita del Pdl e al trionfo elettorale del 2008, il Cavaliere studia la terza metamorfosi, la reincarnazione dopo il fallimento del suo governo e l’estromissione da Palazzo Chigi. "Questi tecnici non hanno niente più di me", ripete. Rispetto a Monti oscilla tra la pulsione di buttarlo giù e la tentazione di mostrarsi come il suo padrino politico, il tutor, quello che gli dà i consigli giusti su come comportarsi con gli alleati europei. Nell’uno e nell’altro caso non certo un aiuto per il governo dei tecnici. Destinato a diventare sempre più un nemico di Berlusconi se la crisi dei debiti dovesse precipitare e se il patto Bersani-Casini, trasformare l’esperimento Monti in un governo politico per la prossima legislatura, dovesse decollare. A quel punto al Cavaliere non resterebbe che provocare un ultimo referendum sulla sua persona, chi sta con i professori e con l’Europa e chi sta con lui. Alla guida di una lista personale. Gli consigliano di chiamarla Forza Silvio. Ma il nome c’è già, quello dell’eterno ritorno: Forza Italia.